Le considerazioni che seguono si collegano alle riflessioni fatte in un precedente post in due parti: Il moralismo, scorciatoia per smarrirsi [parte 1 / parte 2], del quale costituiscono una nota a margine. (Ma valgono anche come annotazioni a sé stanti.)
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Ogni tanto, negli ambienti
della destra “libertaria” c'è qualcuno che afferma, forse in
maniera goliardico-provocatoria (a loro piace a volte assistere alle
reazioni scandalizzate di alcuni intellettuali “seriosi”) o forse
per sondare il terreno al fine di capire se i tempi sono maturi per
“mercatizzare” ogni spazio dell'esistenza (chissà), che
“ciascuno può fare quel che vuole”, anche utilizzare il proprio
corpo, la propria avvenenza, ecc., per fare carriera, anche in
politica.
Un paio di anni fa fecero
scalpore per qualche giorno le dichiarazioni di un deputato del Pdl,
Stracquadanio [qui e qui sono riportate le sue
dichiarazioni e alcune reazioni che suscitarono], su questo tema –
e poi vennero dimenticate per tutti i “terremoti” politici che da
allora si sono susseguiti.
Per la cronaca, l'onorevole
ha poi parzialmente smentito quelle dichiarazioni, ma non è la
persona che le ha pronunciate a renderle significative, bensì il
fatto che esse rappresentano comunque una “corrente di pensiero”
che esiste, in maniera più o meno palese, nel nostro tempo e nella
nostra società.
In realtà, l'onorevole fu
perfino moderato nelle sue esternazioni. Non arrivò infatti a dire
letteralmente che è lecito “vendersi”; tuttavia nella società
c'è chi lo pensa – e c'è chi lo mette in pratica, nei sottoboschi
del potere.
Certe pratiche poi al giorno
d'oggi sono trasversali, perché sono spesso connaturate al cattivo
uso del potere, ne rivelano anzi certe patologie.
A me è capitato di sentire,
fra i commenti della gente comune, qualcuno, influenzato dal
“rampantismo” di certe “Milano-da-bere” che da anni ormai fa
da modello più o meno sotterraneo alle vite di molti, chiedersi (e
chiedermi): “Che male c'è, in fondo? Ognuno vende quello che ha
per arrivare in alto; e se una (o uno) ha un bel corpo, perché non
deve servirsi di quello? Tu al posto suo non lo faresti?”
Prendo sul serio le domande,
proprio perché rivelatrici di un certo modo di pensare, e cerco di
rispondere.
Sì, c'è in qualche misura
una “legittimità” nel vendersi, è innegabile; è sbagliato però
confondere in un unico calderone funzioni pubbliche e carriere in
genere: se infatti, in un'impresa privata, nessuno può impedire a X
o a Y di dare la scalata al vertice vendendosi in ogni modo
possibile (e vendendo anche parti più o meno nascoste del proprio
corpo) – qui sta la “legittimità” e qui si ferma – non si
può fare lo stesso discorso in merito alle funzioni pubbliche, di
deputato, ministro, o anche di funzionario dello Stato. I cittadini
hanno il diritto di avere rappresentanti che non siano tali solo per
essersi “venduti” (“comprando” il posto nelle liste di
partito); e hanno il diritto di avere al governo ministri realmente
competenti e non gente che eventualmente si è “venduta” per
carriera; di avere funzionari competenti che sappiano svolgere i
delicati compiti per i quali la collettività li remunera; e così
via.
Non bisogna infatti
dimenticare che vende il proprio corpo chi ritiene di non avere altri
meriti oltre quello; e soprattutto, chi ci garantisce che colui o
colei che mette a disposizione il proprio corpo per far carriera può
avere anche capacità da spendere nell'incarico che poi, grazie a
quei mezzi, ottiene? E comunque non si può affidare il bene pubblico
a questa specie di lotteria.
C'è qui una evidente
discrepanza, insomma, tra il meccanismo di selezione del personale e
le caratteristiche che l'incarico da ricoprire richiede ai
“candidati”.
Sorge poi un altro legittimo
dubbio. Se per ipotesi (finora non si è accertato nulla del genere)
qualcuno/a viene inserito/a nella lista ufficiale di candidati di un
determinato partito sol perché si è venduto/a a qualche dirigente
del partito medesimo, e quindi partecipa da candidato/a alle elezioni
(politiche o amministrative, ecc., non importa), chi può garantirci
che – essendosi già una volta dimostrato devoto al principio
“tutto si compra e si vende, ogni cosa ha il suo prezzo” – non
sarà disposto ancora a vendersi o a farsi “comprare”? Chi può
garantirci che, una volta eletto/a, non si rivelerà ancora sensibile
al fascino della compravendita di sé, per esempio offrendo i propri
servigi di rappresentante del popolo e mettendo a disposizione del
“miglior offerente” (che può essere, per ipotesi, una potente
lobby che lo paga in “tangenti” e “favori”) il proprio voto
di parlamentare o consigliere comunale, ecc., per agevolare
“nell'ombra” alcuni affari e interessi non trasparenti?
Mi sembra che questo sia un
interrogativo più che legittimo, e nient'affatto peregrino, date le
premesse. E da esso scaturisce una conseguenza importante: i
cittadini hanno il diritto di sapere fin nei dettagli in che
modo i candidati a una carica elettiva sono stati selezionati e
scelti dai gruppi dirigenti dei partiti.
In questo campo non ci
devono e non ci possono essere zone “opache” e coni d'ombra;
anche se – per assurdo – un giorno si dovesse stabilire che è
pienamente legittimo vendersi (in tutti i sensi) per ottenere un
posto in lista come candidato/a alle elezioni, rimarrebbe comunque
integro e pieno il diritto da parte degli elettori di sapere a
chiare lettere che il candidato o la candidata y, per
essere ammesso/a in lista e partecipare alle elezioni, è passato/a
per il letto del tale o talaltro notabile di partito, o gli ha fatto
qualche altro particolare favore. Dopo di che, sta all'elettore, in
piena libertà e coscienza (ma in possesso di tutte le informazioni
del caso), valutare e fare le proprie scelte...
Il modo di ragionare del
quale stiamo discutendo, e che quelle domande a cui ho provato a
rispondere rivelano, contiene però a mio parere qualche altra pecca,
forse ancor più seria.
Infatti, sembra dare per
scontato che il destino della nostra società e del nostro modello di
convivenza sia quello di andare inesorabilmente verso una sorta di
“principio universale della compravendita”, o di “mercatizzazione
generale” dei rapporti umani. L'unico modello al quale dovrà
conformarsi ogni tipo di relazione fra esseri umani, secondo questa
concezione “iper-liberista”, sarà quello del contratto, dunque
(qualunque cosa sarà scambiata in cambio di soldi, e qualunque cosa
– anche la più intima, la più personale – avrà un “valore di
mercato”).
Se quella di “vendersi”
fosse solo una “scelta” di qualche singolo/a, non ci sarebbe
problema; il fatto è che questo modello della “compravendita
universale” rischia di riportarci all'epoca in cui anche le cariche
pubbliche si vendevano e si compravano. Ma sono passati secoli da
allora, e fior di liberali (liberali, non comunisti!) ci hanno
spiegato che quel modo di intendere le funzioni pubbliche era
inefficiente, perché finiva per consegnare interamente al meccanismo irrazionale e iniquo dei privilegi (di ceto allora; di “casta”
oggi?) la distribuzione di incarichi e di compiti che erano (e sono)
di vitale importanza per le collettività e gli Stati.
Inoltre, il paradigma
“mercatista”, con la sua retorica, si sta rivelando invasivo e
pervasivo come e più del tradizionalismo moralista, che ci ha
condizionato a lungo (e non ha ancora smesso). Vogliamo cascare dalla
padella nella brace? Da un condizionamento che non dà tregua ad un
altro, del tutto simile? E la nostra vera libertà di
scegliere dov'è?
Non solo dobbiamo essere
liberi di non venderci, ma dobbiamo essere anche posti
nelle condizioni di non essere in alcun modo ricattabili (e di
non essere socialmente e personalmente discriminati e penalizzati)
in virtù del nostro rifiuto. In questa garanzia consiste la
salvaguardia vera della nostra possibilità di scegliere
liberamente.
La "compravendita"
non deve diventare un paradigma universale e “onnivoro” (capace
cioè di fagocitare tutto e tutti, riducendo ogni cosa alla propria
logica e di fatto eliminando ogni altro modo alternativo di impostare
e regolare le relazioni umane e sociali), esattamente come non devono
essere onnipotenti il tradizionalismo e la sua retorica moralista.
Sono d'accordissimo con le tue riflessioni e conclusioni.
RispondiEliminaPer quanto riguarda l'uso del proprio corpo per far carriera ed acquisire posizioni di rilievo e prestigio, lo trovo deprecabile e non certo per una questione di morale - che avvenga privatamente infatti non mi scandalizza di certo, anzi, mi lascia indifferente - ma perché in questa maniera viene completamente meno il principio della meritocrazia, essendo l'avvenenza fisica un frutto del caso e non certo un merito.
La compra-vendita di cariche pubbliche è una vergogna, ovviamente da condannare per i motivi che indichi tu. Molto più sottili e difficili anche da identificare sono, a mio avviso, quei meccanismi che invece inducono i governi a sostenere alcune linee di pensiero ed idee piuttosto che altre e questo per via delle pressioni - anche indirette, implicite - che determinate lobbies esercitano continuamente.
Faccio un esempio semplicistico, riguardante una questione che conosco su cui mi informo da diversi anni: la regolamentazione della sperimentazione animale. Ormai da almeno venticinque anni la comunità scientifica è concorde nel decretarne l'effettiva INutilità (quelli che ne sono a favore è perché vi sono direttamente implicati), eppure i governi fanno fatica ad approvare leggi che la riducano del tutto, fino ad abolirla completamente (piccolissimi, irrilevanti passi avanti sono stati fatti solo grazie alle battaglie degli animalisti e della LAV) e questo perché vi sono enormi, incredibili interessi commerciali legati a tutto ciò che ruota attorno alle aziende farmaceutiche: ovviamente i vari governi che si sono succeduti ed i singoli partiti, timorosi di perdere una considerevole fetta dei loro elettori, non si azzardano a promuovere un cambiamento legislativo in questo senso.
E così è per tutto, almeno per ogni aspetto della nostra esistenza in cui vi è un grande giro di soldi dietro.
Non si tratta di ricatti veri e propri da parte delle lobbies, ma di considerazioni interessate che non fanno agire i governi nella giusta maniera.
Pensa anche alla questione della caccia: sono sicura che se oggi si indicesse il referendum per abolirla, il 50% + 1 della popolazione voterebbe a favore; ma il referendum non si fa perché scontenterebbe le lobbies delle armi e di tutto ciò che vi ruota attorno e quindi i governi hanno paura di perdere terreno e credibilità in quel senso.
Un saluto. :-)
Grazie per il tuo commento, come sempre attento.
EliminaCredo anch'io che gli interessi economici e "di parte" influiscano, quando dispongono di potenti mezzi e mass-media, sull'orientamento delle coscienze e soprattutto sulla formazione del "senso comune" e di conseguenza sulla legislazione (di solito i partiti tendono a non contrariare le tendenze diffuse nella società, se non - laddove proprio non possono farne a meno - con mille cautele, per non perdere consenso elettorale).
L'esempio della caccia, che fai, dimostra poi che anche dove la coscienza della società è pronta per certi cambiamenti, ci sono interessi più forti che premono "lobbisticamente" in direzione opposta, e prevalgono. Del resto, in questo periodo l'opinione degli elettori imbarazza una certa "dirigenza", soprattutto quella che, per formazione, guarda dall'alto in basso "il volgo" e vorrebbe togliergli, se l'occasione adatta le si presentasse, la facoltà di prendere le decisioni "che contano".
Nonostante tutto quel che ufficialmente si dice, la democrazia da noi fa ancora paura, specie quando può andar contro certi interessi "consolidati", e c'è chi perciò vorrebbe circondarla di un cordone sanitario per metterla sotto severa tutela (rispolverando per l'occasione tutti i possibili pregiudizi contrari alla democrazia, che da secoli vengono alimentati).