Anche
Amartya Sen
- economista e politologo di fama mondiale, professore all'Harvard
University, nonché Premio Nobel per l'economia - in una
recentissima intervista (risale a giovedì scorso) rilasciata ai giornalisti Olaf
Storbeck
e Dorit
Heß
per il quotidiano tedesco “Handelsblatt”
(specializzato in economia e finanza), afferma di vedere la
democrazia in pericolo in Europa.
L'intervista
è riportata anche in inglese,
sul blog di Storbeck, “Economics Intelligence”
[è
questa la fonte dei passi riportati (e tradotti) sotto; la traduzione in
italiano è a cura del sottoscritto],
e a mio avviso contiene spunti importanti in ogni sua parte, anche
quando tocca argomenti più “tecnici” riguardanti le teorie
economiche.
Non potendo tradurla
integralmente (anche perché, per le regole che mi sono imposto
di seguire in questo blog, dovrei poi anche commentarla tutta...), mi
limito a indicare alcuni passaggi che sono significativi in tema di
“democrazia” e procedure democratiche, e più in generale
in tema di decisioni politiche.
Già all'inizio
dell'intervista, A. Sen entra nel vivo della questione che qui ci
interessa.
«Domanda:
Professor Sen, lei ha l'impressione che gli economisti e i soggetti
deputati ad assumere decisioni di politica economica stiano imparando
le giuste lezioni dalla crisi economica e finanziaria più
grave dai tempi della Grande Depressione?
Risposta: Penso proprio di
no. Sono piuttosto deluso dal tipo di pensiero economico nonché
di pensiero sociale che mette in relazione l'economia con la
politica.
Cosa c'è che non
va?
Molti
aspetti delle decisioni politiche sono sbagliati, specialmente in
Europa. Il primo è un venir meno della democrazia [a
democratic failure: lett., "cedimento democratico", "cedimento/fallimento sul piano della democrazia"].
Una politica economica dev'essere in definitiva qualcosa che la gente
comprende, apprezza e sostiene. In nient'altro che questo consiste la
democrazia. Il vecchio concetto “niente tasse senza rappresentanza”
[“no
taxation wihout representation”]
in questo momento in Europa non c'è.
In che senso?
Se
vivete in un Paese del Sud, in Grecia, in Portogallo e in Spagna, le
opinioni degli elettori sono molto meno importanti delle opinioni dei
banchieri, delle agenzie di rating e delle istituzioni finanziarie.
Un effetto dell'integrazione monetaria europea, in assenza di
un'integrazione politica, è che il popolo di molti di questi
Paesi non ha voce. L'economia è sganciata [de-linked:
lett., "disconnessa", "scollegata"] dalla base
politica. Il che io ritengo sia un errore, ed è in totale
contrasto rispetto al grande movimento europeo che iniziò
negli anni Quaranta e promosse l'idea di un'Europa unita e
democratica.»
I deleteri effetti del
“deficit democratico” che molti da tempo avvertivano in Europa
sono ora macroscopicamente evidenti.
Le
politiche economiche, in democrazia, sono un “affare del popolo”
e, come ricorda Amartya Sen, devono passare attraverso le istituzioni
rappresentative in maniera sostanziale
e non semplicemente formale
(come sta ora accadendo): le istituzioni rappresentative, cioè,
non devono limitarsi
a ratificare
quanto è stato deciso da altri - altrimenti il loro ruolo
viene svilito e le loro competenze costituzionali stravolte o
addirittura violate
- ma devono effettivamente
discutere nel
merito
i provvedimenti, rapportandosi in un feedback
continuo, ininterrotto e privo di “interdizioni”, con i
cittadini.
E
non
c'è emergenza che tenga!
Il grimaldello (o lo spauracchio) dell'emergenza è stato
sempre brandito e utilizzato con rara maestria da chi voleva, per una
ragione o per l'altra, liberarsi del “fardello” costituito dal
controllo popolare delle decisioni e degli atti politici.
Sulle
responsabilità che le singole forze politiche o i singoli
partiti hanno avuto o hanno nel determinarsi della situazione che ci
ha condotto a questo punto si può e si deve senz'altro
discutere; ma questa discussione non può diventare un pretesto
o un alibi per disfarsi delle procedure democratiche. C'è chi
preme visibilmente affinché determinati organismi dell'Unione
Europea e certi suoi procedimenti decisionali, approfittando di
questo frangente della crisi, siano utilizzati per riproporre in
forma riveduta e corretta l'assolutismo
illuminato,
posto questa volta interamente nelle mani di alcuni “decisori
tecnici” più o meno transnazionali (banchieri? lobbisti?
economisti? associazioni di grandi gruppi industriali?), che
ridurrebbero i Parlamenti nazionali, presentati davanti all'opinione
pubblica (grazie a opportune campagne mediatiche) come “inaffidabili
incompetenti” e “cattivi”, al rango di meri “esecutori di
ordini”; ma davanti ad una simile prospettiva possiamo (o dovremmo,
prima che sia troppo tardi) solamente dire: abbiamo
già dato, grazie!
Pensatene un'altra...
E,
ripeto, non regge la scusa dell'emergenza,
come del resto sottolinea Amartya Sen parlando del debito pubblico:
«Il debito pubblico in
Europa deve ridursi, non c'è dubbio su questo. Tuttavia, penso
che la tempistica sia sbagliata. Al momento sembra che la
priorità ufficiale sia tagliare innanzitutto il debito, e
successivamente pensare alla crescita. A me pare che sia questo il
grande errore.»
Laddove
la politica, anziché costruirsi intorno a interessi generali,
cede a interessi o a punti di vista “parziali”, finisce per
inventare anche priorità irrazionali e infondate. Se cioè
si dà retta acriticamente alle richieste puramente “contabili”
degli “esperti finanziari” (ai quali “qualcuno” [ad es. sulle
pagine di alcuni giornali “benpensanti”] sogna di affidare lo
scettro di despota-illuminato),
e attorno a queste - e solamente
a queste - si pretende di impostare scelte epocali di politica
economica, si trascura il benessere collettivo, che è lo scopo
finale, la mission
originaria, della politica democratica; e non solo, ma - ascoltando
solo il consiglio (o il diktat...) nient'affatto “disinteressato”
di tali ambienti - ci si avvia verso rovesci ancora più
rovinosi (per i loro costi sociali) di quelli che il “mostruoso”
debito minacciava di creare. Senza crescita, infatti, come ricorda A.
Sen («La storia economica dimostra che i debiti pubblici
sono ripagati molto più facilmente in periodi di alti tassi
di crescita. Questo è vero per gli anni successivi alla
seconda guerra mondiale così come per gli Stati Uniti durante
l'amministrazione Clinton, o la Svezia negli anni Novanta.»), è difficile che possa esserci riduzione del debito.
E
lo studioso non trascura di soffermarsi sul ruolo insopprimibile
dello Stato democratico
(non di uno Stato qualunque), che non consiste solo nel «fornire
sostegno alle persone vulnerabili e una rete di sicurezza sociale» ma anche nello svolgere un compito che fa venire il mal di pancia
ai liberisti “duri e puri”: «regulating the market
economy», per usare le esatte parole di Amartya Sen (il quale per la verità anche in altre occasioni ha sottolineato questo concetto).
Non è questo il
momento per «drastically cutting down the state»,
dice con forza il professore; perché proprio allo Stato spetta
oggi il compito di stimolare in maniera intelligente la crescita.
C'è
da scommettere che, nonostante l'autorevole fonte di queste
considerazioni (un Premio Nobel, autore universalmente riconosciuto
di valide e innovative teorie politiche ed economiche),
l'establishment continuerà ad andare per la strada che ha
scelto graziosamente per noi,
motivando le proprie decisioni non con ragionamenti, dimostrazioni e
argomentazioni (sottoponibili a controprove, verifiche e
“falsificazioni” in senso popperiano), ma con la parolina
“emergenza”, con la quale annulla ogni possibilità di
discussione e di dubbio (eh già: “c'è l'emergenza,
non possiamo fare altrimenti che così!” E, sottinteso:
“Tanti saluti alla vostra democrazia!”).
"E non c'è emergenza che tenga! Il grimaldello (o lo spauracchio) dell'emergenza è stato sempre brandito e utilizzato con rara maestria da chi voleva, per una ragione o per l'altra, liberarsi del “fardello” costituito dal controllo popolare delle decisioni e degli atti politici" concordo in pieno...come sono d'accordo che sanare il debito senza "crescita" dunque investendo sulla ricerca e l'innovazione e, per noi Italiani, sul turismo dell'arte, non ci porterà da nessuna parte...ma temo solo in un baratro ancora più grande...Grazie di far parte dei miei lettori
RispondiEliminami hai offerto l'opportunità di conoscerti...farò un giro nei tuoi blog :)
Grazie a te per il commento, e benvenuta :)
EliminaIl tuo blog è fra quelli che ultimamente mi hanno colpito, e ho cominciato con piacere a seguirlo.
Quanto alla questione dell'emergenza e del debito... Concordo con te sul fatto che in Italia (paradossalmente, visto che abbiamo in teoria una lunga tradizione "culturale") da moltissimi anni si investe e si punta troppo poco sulla ricerca, sulla valorizzazione del patrimonio artistico, ecc.
Le ragioni di questa "miopia programmatica" sono difficili da decifrare, dato che sembrano mettere in luce una sorta di masochismo politico (ed economico!); o forse il problema principale è che la pressione di alcuni interessi consolidati (ad es., una certa industria che vive di "incentivi" e di commesse dello Stato, che quindi deve rinunciare ad altri usi per quel denaro) è ancora troppo forte e certo non va nella direzione degli interessi generali della collettività.