Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 5 novembre 2012

Il lavoro "flessibile" e il suo "mercato" sono un decreto del "destino"? Qualche legittima domanda


Hanno fatto scalpore, come tutti sappiamo, alcune dichiarazioni del ministro Fornero sul rapporto fra i giovani e il lavoro.

Al di là dell'equivoco sulla qualifica di choosy attribuita ai giovani di oggi – il Ministro ha spiegato che si riferiva a un atteggiamento in voga sino a qualche tempo fa, giacché i giovani precari di oggi sanno di “non potersi permettere” di rifiutare un impiego – il suo discorso comunque riprende il leit motiv della “flessibilità obbligatoria”, da anni ormai ripetuto da politici, tecnici e intellettuali influenti.

C'è chi, dai giornali o da “pulpiti” autorevoli, ci dice che “bisogna abituarsi alla flessibilità”, che “bisogna abituarsi a cambiare continuamente lavoro durante la propria vita”, che “bisogna abituarsi alla globalizzazione del mercato finanziario”, che “bisogna tagliare le spese sociali”, ecc.

Nessuno però ci spiega veramente perché dovremmo abituarci a simili cose; se qualcuno finalmente lo facesse, e se la spiegazione fosse davvero convincente, magari potremmo essere indotti a dare ragione a chi sostiene tutti quei “bisogna... bisogna...”.

Bisogna perché?



L'unica risposta che viene fornita – a parte la più gettonata, “Ce lo impongono i problemi di bilancio” (che però in tante occasioni vengono utilizzati come un pretesto per attuare determinate politiche discutibili senza incontrare opposizioni) – è: “Perché adesso i mercati vogliono così”, con qualche interessante variante: “L'Europa vuole così”, oppure: “Oggi il mondo è cambiato e bisogna essere all'altezza delle sfide attuali”.

Bene. I mercati “vogliono”, dunque... E i mercati cosa o chi sono, visto che “vogliono”? da dove vengono? Qualcuno avrà pur istituito – attraverso accordi internazionali, leggi nazionali, provvedimenti vari e assortiti – questo sistema di scambi economici che per comodità chiamiamo “mercato” (o al plurale, “mercati”). E' un sistema come un altro, e non è l'unico possibile; è fatto così perché c'è chi così, e non altrimenti, l'ha voluto; non si è “fatto da sé”. Non l'abbiamo trovato un giorno già bell'e fatto, fuori dalla porta di casa.

Anche solo per questo motivo (e non è comunque il solo) non ci si può venire a dire che l'attuale struttura degli scambi commerciali internazionali, delle transazioni finanziarie “globalizzate”, ecc., sia piovuta dal cielo e sia una sorta di “destino” che ci tocca solo accettare e subire, con tutte le conseguenze che provoca e porta con sé.

E l'altro leit motiv, “Oggi il mondo è cambiato (e bisogna eccetera eccetera...)”, non è meno reticente e fuorviante. Il “mondo” non “cambia” da sé; il “mondo” della società umana, il “mondo” degli scambi economici, del lavoro umano e della produzione è fatto di decisioni, transazioni e accordi fra persone (anche in rappresentanza di popoli, nazioni, ecc.).

Se “bisogna” accettare il “destino” della flessibilità permanente (che per molti/e si tramuta in precariato perenne), si deve prima di tutto spiegare da dove deriva questa “necessità” (posto che sia davvero tale): non certo dal “mondo” che “è cambiato” (espressione che in sé non dice nulla: anche quando costruiscono un nuovo palazzo su uno spiazzo da anni incolto, o quando allestiscono un nuovo giardino pubblico in città, il “mondo” cambia: ma qualcuno ha deciso di costruire quel palazzo, o di far esistere quel parco per motivi precisi, non sono nati un bel giorno da sé come se fossero funghi!).

Ma sorvoliamo... D'accordo, possiamo anche ammettere che il mondo sia cambiato; di fatto cambia incessantemente; ma perché questo cambiamento impone in particolare ai lavoratori di diventare tutti flessibili e “non-choosy”? I “sacrifici” devono essere imposti solo a una parte della popolazione? Il “mondo” deve cambiare solo o soprattutto a svantaggio dei lavoratori? L'unico “fattore produttivo” che deve sacrificarsi, senza alcuna forma di “compensazione”, è il lavoro? Questo non fa forse pensare che si tratti di un cambiamento strategico, instradato in una determinata direzione al fine di salvaguardare, ad es., la remunerazione del capitale e (in particolar modo) la crescita esponenziale e “globalizzata” delle speculazioni finanziarie?

Le garanzie minime delle quali godeva il lavoratore vanno “sacrificate”, ci dice la vulgata “mercatista” (diffusa da buona parte dei “media mainstream”): innanzitutto il contratto di lavoro a tempo indeterminato (ed è un sacrificio di non poco conto, giacché ne trascina altri con sé, ad es. la possibilità di fare programmi economici a lunga scadenza [come l'acquisto di una casa, o anche il semplice affitto...], o il diritto al congedo di maternità per le lavoratrici). Ma il lavoratore cosa riceve in cambio di questo notevole sacrificio?

La risposta che in genere si può ottenere se si pone questo tipo di domanda è: “L'economia ci guadagna” o in alternativa: “Si accresce la produttività [o la competitività]” o “Si favorisce la crescita e così stiamo tutti meglio”.

Ma sono delle non risposte, in realtà; è come se alla domanda “Dove vai?” qualcuno rispondesse “Porto cipolle”.

Ripeto quindi la domanda: – In cambio dei sacrifici che gli vengono chiesti, cosa riceve il lavoratore? Come viene ripagato il suo sacrificio? –

Un interlocutore “mercatista” [altresì detto “fan della globalizzazione sregolata e della finanziarizzazione dell'economia”... ma è definizione troppo lunga] potrà forse replicare, se ha voglia di evitare le banali risposte standard di cui sopra: “Il suo sacrificio non può essere ripagato sùbito. Ma rendendo più snello e flessibile il lavoro (sotto il profilo contrattuale e degli oneri a carico dell'imprenditore), si avranno crescita, sviluppo, migliore competitività, e così nel medio e lungo periodo ci guadagneremo tutti, in quanto consumatori. Si creeranno inoltre anche più posti di lavoro”.

Varie sono le obiezioni che si possono muovere a un discorso del genere. In primo luogo, bisogna intendersi sul significato da dare al concetto di “crescita”. La si misura soltanto in termini di PIL e coi consueti parametri (volume degli scambi commerciali, ecc.)? Il “benessere” che la “crescita” dovrebbe attestare non è dato forse anche da elementi che non possono essere compresi nella semplice “sommatoria” della produttività [e fra questi elementi dovremmo includere i fattori come l'ambiente che, pur non agevolmente “monetizzabili”, contribuiscono alla “qualità della vita” o ne sono indice]?

In secondo luogo, anche ammesso che per “crescita” si debba intendere ciò che vogliono i “mercatisti”, è tutta da dimostrare sul lungo periodo la correlazione fra “flessibilizzazione” del lavoro e “crescita” (o “sviluppo”). A maggior ragione quella correlazione è discutibile se diamo un significato più “esigente” (sotto il profilo sociale) al concetto di “crescita”.

Inoltre, l'idea che i sacrifici dei lavoratori vengano ripagati in termini di benefici ai consumatori ha in sé qualcosa di contorto e forse “dissociato”. Perché qualcuno pensa che ciascuno/a di noi, o comunque ciascuno dei lavoratori, debba porsi in conflitto... con se stesso/a? Nessuno/a di noi è soltanto consumatore, giacché la qualifica di consumatore è potenzialmente universale: infatti nessuno può fare a meno di consumare beni almeno per sostentarsi (cibo, indumenti, ecc.). Ma questo vuol dire che il lavoratore salariato/stipendiato è (come chiunque) anche consumatore. Tuttavia, per tornare alla risposta del “mercatista” tipo, il lavoratore come può ottenere benefici in quanto consumatore dalla riduzione delle proprie garanzie contrattuali? In cosa consiste il beneficio che riceve se ad es., proprio come consumatore, non può più accedere al mutuo per acquistare una casa?

La categoria di consumatore è molto amata e utilizzata ultimamente nelle riflessioni sull'economia e persino sulla politica, proprio perché è universale, e tiene i discorsi a distanza di sicurezza dalla visione e dalla nozione dei conflitti e delle contraddizioni sociali.
Se gli unici problemi dei quali (all'interno dei dibattiti mainstream) è sensato parlare si riducono ai problemi del consumatore, ogni altro soggetto possibile, a partire dal lavoratore, viene relegato ai margini del discorso.

Ma il consumatore non è mai un “omino” astratto, privo di volto e di qualità (tranne quelle rilevanti per il marketing), come vorrebbe la modellistica dei “mercatisti”: e del resto da dove ricava i soldi che gli servono per consumare, quell'omino astratto?
Soltanto se restituiamo un vero volto e una vera identità a quell'“omino” chiamato “agente razionale” dai mercatisti ci accorgiamo che il soggetto “essere umano” non si può scindere a seconda delle convenienze prendendone solo lo spicchio detto “consumatore” e tralasciando sdegnati lo spicchio “lavoratore”. Perché lo spicchio “consumatore” è molto sottile, anzi è solo una superficie esterna, un involucro che non ha nessuna vita e nessun significato senza il resto del corpo che produce (e ri-produce!) per poter poi anche consumare.

E se nel suo complesso il soggetto, come soggetto che produce e lavora, non viene valorizzato e anzi viene sfruttato, è difficile che quello stesso soggetto, proprio sul lungo periodo caro a certi mercatisti, possa trovare compensi e gratificazioni nella sua riduzione a consumatore. Lo potrà fare forse per un certo tempo, usando il consumo anche come rifugio, ma se a lungo andare le sue energie si riducono e parallelamente aumenta lo stress (perché sottopagato da troppo tempo, perché i debiti si accumulano, perché ha sperimentato di non riuscire a costruire un progetto di vita stabile, ecc.), il consumo si stabilizza al livello della sopravvivenza “possibile” e può essere semplicemente motivo di frustrazione, non più di gratificazione.

E quale “crescita” si costruisce in simili condizioni, se questa situazione si moltiplica per tante persone immerse nella medesima “palude”?

Non si può poi parlare di “sviluppo” quando le condizioni medie dei lavoratori di oggi, specie se hanno famiglia (e una certa età), tendono a essere peggiori di quelle dei lavoratori di trenta o quaranta anni fa. Diverse analisi recenti hanno sottolineato infatti (e con una certa evidenza mediatica) che per la prima volta, da quando l'Italia ufficialmente “cresce” per la sua industrializzazione, “i figli stanno peggio dei padri”, soprattutto se si guarda al potere di acquisto dei salari.

Ma davanti a una simile constatazione, sorge un'altra serie di domande, che si vorrebbero porre a chi esalta l'attuale assetto dell'economia e dei “mercati”.

Perché un lavoratore di oggi dev'essere meno tutelato di un lavoratore di ieri? E' forse meno degno? Perché una lavoratrice oggi, se ha un contratto di lavoro “precario”, ha meno diritto (eufemismo per dire che non ha affatto diritto) al congedo per maternità? Cos'hanno che non va, le lavoratrici e i lavoratori di oggi? Sono meno “virtuosi” di quelli di ieri? Hanno qualche colpa da scontare, forse?

In sostanza, non esiste forse a questo riguardo un problema di equità e di giustizia? Si possono cancellare con un tratto di penna aspettative che derivano da una maturazione politica e sociale (o, se si vuole, da un'evoluzione dei rapporti sociali ed economici, che si è tradotta persino in una evoluzione del “costume”) durata decenni e che ha comportato anche lotte e sacrifici? L'emancipazione (e la mobilità sociale, che a questa è inscindibilmente associata) è un bene sociale o no? Dobbiamo obbligatoriamente dare ragione a coloro che – con giri di parole – cercano di farci intendere che sia invece un flagello del quale sbarazzarsi al più presto?

Dagli anni Sessanta ad oggi, e specialmente negli ultimi decenni, in Italia molti giovani, sostenuti dalle loro famiglie, hanno investito nella propria formazione; e in questi decenni studiosi e governanti italiani hanno garantito e ripetuto che una migliore formazione e una qualifica di studio elevata (diploma di scuola media superiore o laurea) avrebbero permesso a ciascuno/a di migliorare le proprie chances, le proprie opportunità di vita e di lavoro. E d'altronde avere più diplomati e più laureati, anche dal punto di vista complessivo della società e dell'economia (e non solo dal punto di vista “egoistico” delle ambizioni individuali, pur importanti), significava avere “più (opportunità di) sviluppo”. Ora è cambiato qualcosa nell'agenda pubblica? Non va più bene studiare, formarsi?

In realtà ancora adesso un giovane con una buona qualifica, con un ottimo titolo di studio, dev'essere considerato in qualche modo un'“eccellenza” o – per usare un termine antipatico se riferito a persone – una “risorsa”, non solo per sé ma anche per la collettività.

Ebbene, e la collettività cosa fa poi di quella “risorsa”, dopo avere investito soldi e strutture per ottenere un'alta “scolarizzazione”? La dilapida, sottoutilizzandola? Perché è questo che succede, ad es., quando a un laureato si chiede di andare a fare il cameriere – non per una stagione o due, ma per anni e anni...

E se noi “dilapidiamo” il patrimonio di formazione che è costituito dai nostri giovani più preparati e colti, come pretendiamo di tornare a “crescere”?

L'inefficienza del nostro sistema economico è da addebitare interamente ai fantomatici “giovani choosy” [che certo ci sono e ci saranno, ma, come lo stesso ministro Fornero ammette, non sono più rilevanti come fenomeno] o non è forse in gran parte dovuta all'inefficienza del cosiddetto “mercato del lavoro”, che non seleziona i migliori (tra i giovani in cerca di occupazione) e tanto meno li premia o li valorizza, se non occasionalmente? E per “mercato del lavoro” non intendo qui soltanto le strutture dello Stato e le istituzioni pubbliche (formazione, legislazione sul lavoro, uffici per l'impiego, ecc.) ma anche l'organizzazione delle imprese (e più precisamente il modo in cui le imprese reclutano i lavoratori).

La fuga dei cervelli, ad es., è dovuta all'atteggiamento choosy dei giovani o è piuttosto un fenomeno da addebitare alle varie disfunzioni, mancanze e storture delle istituzioni e del mercato del lavoro (come definito sopra)?
Perché il mercato del lavoro da noi non tende a premiare i più preparati e i più competenti (non parliamo poi dei più “geniali”) ma, nel reclutare e selezionare i lavoratori (o meglio i candidati al lavoro), sembra prediligere un'altra gerarchia di “valori”? Sarebbe interessante capire quali sono questi “valori” alternativi alla preparazione, all'attitudine e alla competenza, e soprattutto perché vengono preferiti a quelli.

Perché – e questo è solo un esempio – tanti giovani, quando presentano un buon curriculum a un'azienda, con intenzioni tutt'altro che choosy, si sentono rispondere: “Lei è troppo preparato per noi”? Ma che vuol dire? Ma che sistema è? Dobbiamo forse arguire che da noi si preferiscono gli impreparati e gli incompetenti? E perché, di grazia? [E soprattutto: è con questi sistemi naif di selezione e reclutamento che poi pretendiamo di ottenere lo sviluppo e la crescita?]

D'altra parte, se ci si forma per una determinata professione, spendendo denaro, tempo (anni!) ed energie per raggiungere l'obiettivo (la laurea, il dottorato, il “master”, ecc.), si possiede una competenza che è legittimo desiderare di mettere a frutto.

E invece, la “flessibilità obbligatoria” costringe potenzialmente tutti/e a cambiare continuamente e freneticamente lavoro, senza alcun riguardo per la formazione e la vocazione di ciascuno/a. La flessibilità “eterna”, se spinta davvero al suo estremo limite, ci rende tutti fungibili, intercambiabili, come se fossimo tutti “esseri senza (specifiche) qualità”, e questo a mio parere non è un passo avanti. Tutt'altro...

E' vero che la società è diventata più “veloce”, il progresso tecnologico rapido di oggi impone cambiamenti più frequenti anche nei sistemi e metodi di produzione e negli stessi prodotti, ecc.; tutto vero; ma la capacità di adattamento implicita nel concetto di flessibilità si scontra con la richiesta di specializzazione che proviene dallo stesso sistema economico-produttivo.

O siamo iper-specializzati o siamo iper-flessibili. Sono due esigenze antitetiche, e tuttavia il “mercato” oggi ci chiede di essere sia l'una che l'altra cosa, contemporaneamente. Come si può chiedere alle persone di investire (tempo, energie, denaro) in una formazione iperspecialistica, dunque complessa, e poi pretendere che quegli iperspecialisti (o anche solo specialisti coscienziosi, senza “iper”), una volta formati, mettano da parte il loro sapere specialistico per diventare “flessibili” e adattarsi a qualsiasi lavoro? Davanti a una simile schizofrenia del “mercato” sorge un dubbio: non è che per caso abbiamo rinunciato a governare le trasformazioni e ci facciamo passivamente guidare da processi decisi al di sopra delle nostre teste, senza nemmeno chiederci (nemmeno davanti ad assurdità e contraddizioni evidenti) dove stiamo andando? [E questa domanda la rivolgo specialmente ai “tecnici” e ai decisori politici nazionali.]

Per tornare quindi al discorso del Ministro, qualcuno lo usa come spunto per dire che “è vero, i giovani oggi non vogliono lavorare”. Ma è lo stesso ministro a smentire questo cliché, dicendo che non è vero, in quanto i giovani precari di adesso non sono più così choosy.

Il fatto è che molti/e confondono le proprie esperienze personali con l'andamento generale delle cose. Hanno conosciuto qualche giovane che “non vuole lavorare” e da questa loro conoscenza empirica pensano di poter ricavare una regola universale del tipo: “Ogni giovane non vuole lavorare oggi, e dunque il giovane che eventualmente si lamenta della propria condizione (perché è sfruttato, non trova lavoro, ecc.) è una sorta di impostore”.

Non è così.

In realtà troppi giovani (e anche molti “non più giovani”) si trovano non occasionalmente o saltuariamente ma pressoché stabilmente a svolgere lavori sottopagati o addirittura non retribuiti. Anche volendo credere a tutte le “buone ragioni” di chi sostiene la “flessibilità obbligatoria”, come si può ammettere e accettare che il lavoro non venga compensato, retribuito e quindi onorato (nello stesso senso in cui si onora un debito, ma anche perché il lavoro merita rispetto vero e non solo retorico)? Come si fa a negare l'evidenza, ovvero il fatto puro e semplice che queste forme di “lavoro” (sottopagato o addirittura non retribuito) sono in realtà nuove forme di sfruttamento?

Possiamo dare tutte le giustificazioni che vogliamo alla “flessibilità”; e probabilmente qualcuna di esse può avere un qualche senso; ma ciò non toglie che il lavoro – come forse sapevano le generazioni che ci hanno preceduto – deve dare dignità alle persone e non sopprimerla. Un salario che non consenta al lavoratore una vita dignitosa non è ammissibile, specialmente in Paesi che pretendono di far parte di “esclusivi club” come il “G8”; se la crescita, tanto decantata dai “mercatisti”, implica l'aumento delle disparità sociali, si trasforma in crescita dei privilegi (e del potere di ricatto dei detentori di posizioni privilegiate sul resto della società), ed è cosa ben diversa da quel che il nome suggerirebbe. Quanto allo sviluppo, poi, se si realizza gettando nell'incertezza della “precarietà” milioni di persone (non occasionalmente, ma stabilmente), dal punto di vista sociale non si può definire tale, perché si traduce nel suo opposto, ovvero nella “desertificazione” progressiva delle prospettive di emancipazione e di mobilità sociale.

Abbiamo appena parlato dell'ipotesi in cui il salario non sia sufficiente a consentire una vita dignitosa; e cosa dire dei tanti casi in cui il lavoro non viene neppure retribuito?

Se ci mettiamo nei panni di un giovane di oggi, il quale dopo varie “peripezie”, che si chiamano occupazioni saltuarie, lavori interinali, lavori a chiamata, turni nei call center, ecc., e nonostante quindi orari di lavoro “regolari” e tanta fatica, dovendo registrare nel proprio personale bilancio lavori pagati poco, salari ricevuti solo “a babbo morto” e lavori addirittura non retribuiti, si accorge di non riuscire neppure a pagare regolarmente il fitto di casa, dite davvero che non possiamo capire il suo eventuale scoramento e la decisione di rinunciare a qualsiasi progetto di vita a lungo termine, nel quale era compresa la fiducia stessa nel lavoro?

Se il lavoro si trasforma in una gimcana senza senso e senza dignità, che richiede tanta fatica, impiego di energie e di tempo, e restituisce in cambio solo frustrazione a iosa e la sensazione di non farcela, di essere sempre comunque ai margini, senza soldi né prospettive, si può anche capire perché qualcuno scelga di rifiutare certe “proposte di lavoro” che offre il “mercato”, anche a rischio di essere definito choosy.

9 commenti:

  1. Non voglio parlare di questa cattivissima signora a cui non crescono neanche le piante nell'orto per sua stessa ammissione. Dove non c'è amore muore tutto, e anche nella politica che riguarda le esigenze primarie quali il diritto allo studio prima e al lavoro poi ci vorrebbe più amore. Perché l'amore poi rende, restituisce anche dignità.

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    1. Io ho usato il discorso forneriano sui giovani choosy reali e immaginari (un nuovo spettro si aggira per l'Europa? i giovani che rifiutano lavori sottopagati o non retribuiti? In ogni caso, se fosse vero, sarebbe una "giusta rivoluzione", che costringerebbe tutti a ripensare modelli economici basati su vari livelli, anche sofisticati, di sfruttamento) - dicevo, ho usato il suo discorso come pretesto per parlare di un argomento che purtroppo, al di là di parole generiche e belle intenzioni, viene eluso perlopiù nel dibattito pubblico. Forse perché in proposito le risposte sensate scarseggiano e nella questione del lavoro vengono a galla le contraddizioni del nostro "modello di sviluppo", contraddizioni spinose e scomode (per i "decisori politici").
      E comunque, col termine choosy è comparsa, nel nostro lessico politico, una parola che si presta (e sta già avvenendo, in Rete, sui blog, ecc.) a un utilizzo "ironico-dissacrante" che va in senso esattamente opposto rispetto a quello che immaginava il ministro. Le categorie, una volta create, assumono vita propria e possono sfuggire di mano a chi le ha "prodotte", ribaltando il loro scopo e/o significato originario.

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  2. Non so Ivan, non riesco a pensare a nulla che sia positivo a proposito di quella donna. Ti faccio leggere una cosa che almeno ti strapperà un sorriso: http://silviodigiorgio.blogspot.it/2012/11/animali-e-animali-2.html

    ;-)

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    1. Ahah, ma io non "la" penso proprio, figùrati :-)
      Bello quel link, le caricature sono indovinatissime.

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  3. Quel ragazzo è bravissimo, scrive anche per Il Fatto, dico sempre che è l'unico Silvio che si merita la mia maiuscola..:-))

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  4. Ottima analisi Ivaneuscar!

    In particolare vorrei soffermarmi su questa tua riflessione: "se la crescita, tanto decantata dai “mercatisti”, implica l'aumento delle disparità sociali, si trasforma in crescita dei privilegi (e del potere di ricatto dei detentori di posizioni privilegiate sul resto della società)".

    Infatti è proprio questo che sta avvenendo. A fronte di tantissimi lavoratori cui stanno venendo sottratti pian piano i più elementari diritti (guadagnati in anni ed anni di lotte sociali), si affermano categorie di intoccabili, i nuovi "padroni" (di cui la Fornero fa parte: mi domando perché non rinunci lei al suo ruolo pubblico per andare a lavorare come precaria).

    Aggiungo che quando si svolge un lavoro non consono alle proprie attitudini, magari distante mille miglia da quella che è stata la propria formazione (formazione che uno si è scelto, si suppone, per passione), il lavoro finisce per diventare una vera e propria schiavitù, un lavorare per portare a casa due soldi a fine mese e basta, il che può essere sopportato se almeno il guadagno permette comunque di potersi dedicarsi nel tempo libero ai propri svaghi, ossia di essere altro oltre al lavoro recuperando una dimensione individuale che non sia ridotta al solo essere lavoratore o consumatore; ma se per di più non si riesce nemmeno a guadagnare per pagarsi l'affitto di casa, viene negata persino la possibilità di pagarsi un cinema, una mostra, di farsi un piccolo viaggio, finanche di comprarsi un libro per rilassarsi la sera, allora davvero l'esistenza si trasforma in un inferno. Anche perché non tutti hanno poi la capacità di essere "filosofi" e di accontentarsi del sole che sorge ogni mattina. Un minimo di gratificazioni credo siano legittime.

    Non tanto tempo fa ho visto un film dal titolo Gli Equilibristi, in cui si vede quanto oggi persino divorziare o separarsi è divenuto un privilegio per soli ricchi in quanto, senza doppio stipendio, non si fa avanti. Per non parlare poi degli affitti altissimi e della gente (parlo anche di adulti, non solo di giovani studenti) che è costretta a dividere l'appartamento con altre persone, il che può essere anche piacevole, ma non è detto.
    Quello che voglio dire è che se almeno il lavoro flessibile fosse ben remunerato potrebbe permettere comunque una certe progettualità, o di fare investimenti, invece oltretutto è anche sottopagato. E poi qualcuno mi spiegasse perché noi ci dobbiamo abituare a questa nuova situazione, però le banche invece per concedere mutui, carte di credito ecc. continuano a voler chiedere garanzie a lungo termine. C'è qualcosa che non torna. Da una parte ci dicono che il mondo sta cambiando e che dobbiamo accettarlo, dall'altra i privilegi e gli strapoteri delle banche e del grosso capitale rimangono gli stessi. Da una parte ci chiedono di lavorare senza garanzie, dall'altra queste sono necessarie per partecipare della vita quotidiana.
    E poi, come giustamente ricordi, il PIL purtroppo non tiene conto della qualità della vita. Ad esempio esso aumenta anche tramite gli investimenti bellici, ma di certo le guerre non sono proprio esempi massimi del benessere di un paese; idem per le spese mediche, faranno anche aumentare il PIL, ma testimoniano di un malessere generalizzato.

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    1. Ti ringrazio per il bel commento...
      Aggiungo che quando si svolge un lavoro non consono alle proprie attitudini, magari distante mille miglia da quella che è stata la propria formazione (formazione che uno si è scelto, si suppone, per passione), il lavoro finisce per diventare una vera e propria schiavitù... (più tutte le giuste considerazioni che seguono, nel tuo commento).
      Credo che sia proprio questo il punto fondamentale: il lavoro, nel mondo moderno, dovrebbe essere una via per giungere alla realizzazione della propria personalità: il lavoro dovrebbe liberare. Nelle concezioni antiche e pre-moderne il lavoro poteva anche essere schiavitù, o "servaggio": era considerato normale, in quel modello sociale gerarchico, basato su differenze insopprimibili di ceto, intendere il lavoro, assimilato alla "fatica bruta", come "asservimento" e come "condanna", destinata ai soggetti che nella scala sociale occupavano i gradini inferiori "per decreto di natura".
      Nel mondo odierno, nel nostro modello sociale e culturale, questa idea del lavoro non è più concepibile, e in teoria non lo è. Nessuno esalta più in termini espliciti la "schiavitù" o l'asservimento "per decreto di natura", però di fatto il lavoro è assoggettato a certi meccanismi e a certe condizioni che lo riportano (e ci riportano) indietro di secoli (pur con tutte le meraviglie della tecnologia attuale!), giacché lo "riconfigurano" come condizione alienante, che non consente alcuna "realizzazione di sé" al lavoratore e, attraverso la "precarietà sottopagata", lo riconsegnano a un'assoggettazione di tipo sostanzialmente schiavistico. Sì, perché, rispetto al vecchio rapporto di lavoro, il tempo di lavoro resta quasi sempre il medesimo (e quindi il tempo di vita che viene speso, e dunque "perso" irrecuperabilmente dal lavoratore), ma il lavoratore, a parità di tempo ed energia impiegati, non ha più alcuna protezione (le ferie, il riposo per malattia e - somma, cinica inciviltà [a mio parere] - anche il congedo per maternità) e per giunta la sua retribuzione diventa inconsistente e inadeguata, del tutto consegnata ai "capricci" del mercato (e può il lavoro, inteso in senso moderno, essere soltanto un mercato?).
      [Continuo]

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    2. Come tu rilevi, e come io avevo fatto notare nel post, l'aspetto peggiore della precarietà è proprio il fatto che questa da noi si accompagna pressoché costantemente a basse (e inadeguate) retribuzioni (o addirittura all'assenza di retribuzione tout court, cosa davvero inacettabile e inescusabile, da qualunque punto di vista la si consideri!).
      Probabilmente non sono neppure i "singoli" imprenditori (specie i piccoli) a "generare" questo meccanismo: i sistemi produttivi ed economici vanno al di là dei singoli individui; il fatto che molte piccole (e anche medie) imprese attualmente chiudono i battenti (oppure, entrate da poco sul mercato, hanno vita brevissima) sta ad indicare che i vantaggi di questa organizzazione economico-produttiva si concentrano sempre più in pochissime mani (il grande capitale, specialmente quello finanziario). E' il modello sociale e di vita che nell'insieme si è sfaldato; e i lavoratori forse possono opporsi alla "deriva" soltanto unendo i loro sforzi al di là delle frontiere, e insomma facendo fronte comune in tutto il mondo. Finché qualcuno farà credere loro che approfittando della situazione, e disponendosi a "farsi più schiavi" degli altri (dicesi concorrenza al ribasso o "lotta fra svantaggiati"), possano migliorare le loro condizioni, il sistema appronterà modelli "contrattuali" sempre più svantaggiosi per il lavoro nel suo insieme; e il "vantaggio differenziale" dei lavoratori [il vantaggio che alcuni di essi pensano di avere sugli altri "offrendo" la propria opera per un tozzo di pane] nelle diverse aree geografiche si ridurrà sino a farsi risibile.
      [Continuo]

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    3. E poi, come giustamente ricordi, il PIL purtroppo non tiene conto della qualità della vita. Ad esempio esso aumenta anche tramite gli investimenti bellici, ma di certo le guerre non sono proprio esempi massimi del benessere di un paese; idem per le spese mediche, faranno anche aumentare il PIL, ma testimoniano di un malessere generalizzato.
      Il PIL, per certi aspetti, monopolizzando l'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica, di fatto diventa un'arma di distrazione di massa, una maniera di rendere invisibili determinate questioni che invece sono centrali, per la società e per l'economia. Certo, con questo non voglio dire che il PIL, come misuratore, non serve a niente; ma non è l'"indicatore unico e universale" del "benessere", come molti pensano. E ciò che tralascia è importante quanto (se non più di) quello che considera.

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