Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 1 settembre 2011

Moro, filo di Arianna nel labirinto dei "gattopardi" italiani: su un saggio di Miguel Gotor

Questo periodo non è facile per l'Italia, e lo sappiamo bene: in prospettiva l'anno che abbiamo davanti non ci appare affatto roseo.
Ma questo non è l'unico momento di “difficoltà nazionale” che abbiamo attraversato (oltretutto stavolta i problemi li condividiamo con l'Europa intera); non so dire se sia “più” o “meno” difficile di altri, anche perché – ripeto – non è mica finita qui... però senz'altro certe stagioni del nostro passato sono state durissime, e dai loro drammi potremmo ricavare utili lezioni sui nostri difetti collettivi. Questo è ciò che cerca di spiegarci un denso saggio di Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, edito quest'anno da Einaudi.




Il sequestro di Moro, dunque, o come lo chiamò Sciascia, “L'affaire Moro”.
E' uno di quegli avvenimenti che fanno da spartiacque nella storia di un Paese. Chi ha vissuto quegli anni istintivamente è portato a ricordare dove era, dove si trovava, cosa faceva nel momento in cui la radio, la mattina di quel lontano 16 marzo, diffuse la notizia del rapimento del politico e docente universitario Aldo Moro, e dell'uccisione barbara, atroce, degli uomini che componevano la sua scorta.

A quel tempo ero appena un bambino, frequentavo la scuola elementare, e quindi mi trovavo in classe, seduto al mio banco, in attesa che il maestro entrasse in aula.

Il nostro maestro di scuola era piuttosto “all'antica”, riteneva che gli alunni fossero tenuti a compiere innanzitutto il loro dovere: studiare, studiare, studiare. Quindi le giornate scolastiche, con lui, erano intense, non c'era spazio per pause o per svaghi, la ricreazione durava il minimo indispensabile perché non un solo minuto doveva andare sprecato: lo studio, ovvero il dovere, prima di tutto!
Il maestro quindi – a differenza di altri suoi colleghi e colleghe, che la mattina indugiavano volentieri nei corridoi – entrava in aula in perfetto orario, più preciso di un orologio, perché doveva dare esempio di puntualità, correttezza e disciplina ai suoi piccoli alunni.

E noi ragazzini capimmo che qualcosa non andava, quella mattina del 16 marzo, proprio perché notammo che il maestro era in ritardo (cosa inaudita!). Lo vedemmo poi entrare con la faccia sconvolta – non l'avevamo mai visto in quello stato – e appoggiarsi un momento alla cattedra, per riaversi; poi finalmente ci guardò con espressione seria e ci comunicò: “Hanno rapito l'onorevole Moro. Sapete cosa vuol dire, bambini? Che è successa una cosa molto grave, anzi terribile. Hanno anche ucciso tutti i poliziotti che erano lì per difenderlo, sapete?”.
Continuò poi a darci qualche spiegazione. Ma era soprattutto il suo stato d'animo a colpirci e a farci capire che si era trattato di qualcosa di veramente molto grave – a quell'età, più che quel che ci viene detto, è l'atteggiamento di chi ci parla a impressionarci.

E' chiaro che quegli anni, visti con gli occhi dell'infanzia, assumevano e assumono un aspetto molto diverso rispetto a quello che veniva colto da occhi adulti; i bollettini di guerra o guerriglia che i telegiornali comunicavano allora, con morti, feriti e “gambizzati”, rimanevano sullo sfondo della vita di noi bambini, uno sfondo cupo certamente, come un rombo minaccioso di tuono lontano, ma pur sempre uno sfondo, un “fondale” della vita al quale giorno dopo giorno si faceva addirittura l'abitudine. Eppure in realtà capivamo, anche se non bene e a fondo, ma capivamo, specialmente se avevamo la fortuna di avere una famiglia che non si disinteressava dei fatti del mondo e della politica, e non nascondeva certe notizie ai pargoli come se si trattasse di innominabili “tabù”.

L'autore del testo, Miguel Gotor, docente di Storia Moderna all'Università di Torino [qui il suo blog], appartiene alla mia stessa generazione, dunque il suo interrogarsi su quei fatti e su quelle vicende, con la competenza dello storico che sa maneggiare e interpretare sapientemente le fonti, è per me interessante anche per questo (non solo, ma anche).

Lui parte dal famoso Memoriale di Moro, e dalle contorte vicende del suo “doppio ritrovamento”, per arrivare ad osservare, nella “filigrana” di quella storia ancor oggi nebulosa, certi “vizi di fabbrica” della vita pubblica e politica italiana, o meglio certe costanti (non sempre edificanti, e non sempre immediatamente decifrabili) del nostro comportamento collettivo, e del nostro sentire comune, che ci accompagnano forse sin dai primi anni della (prima) Repubblica, se non addirittura da epoche più lontane.

I fatti e i dati che Gotor accumula nella sua ricostruzione sono numerosi, e tutti sommamente importanti; non mi soffermerò comunque su quella ricostruzione in sé, non entrerò nel merito della sua ricerca, anche perché non si può riassumere in poche righe: per comprenderne realmente il senso ed il valore, mai come in questo caso, bisogna leggere il libro (di 622 pagine, inclusi la sterminata bibliografia e gli indici), e leggerlo con attenzione, magari anche rileggerlo una seconda volta, come ho fatto io (ma del resto è mia abitudine leggere almeno due volte i testi che reputo importanti).

Mi interessa qui piuttosto cogliere alcuni degli spunti di riflessione che Gotor dissemina nel suo volume, e che non riguardano semplicemente o soltanto la vicenda del Memoriale (o dei Memoriali) di Moro, ma arrivano a lambire, partendo da quello snodo della nostra storia, le vicende o i comportamenti pubblici di oggi.

Il “viaggio” compiuto dalle diverse versioni del Memoriale di Moro, fra il 1978 e il 1990 (e oltre), è esso stesso una metafora della strada spesso dissestata, e in molti tratti addirittura minata, percorsa dalla democrazia italiana in quegli anni (e non solo in quelli): «Un viaggio – commenta Gotor – che sarebbe avvenuto tra la prevalente noncuranza dell'opinione pubblica italiana, che troppo spesso riesce a essere indifferente sia quando si indigna sia quando è complice, e la crescente disinformazione della dietrologia alla perenne ricerca di un “grande vecchio” in grado di semplificare i meccanismi di quella lotta tanto feroce e finalmente spiegarli al popolo degli “esclusi”, a patto però di rinunciare ad analizzarli nel loro complesso e stratificato movimento vitale e politico»
[Gotor 2011, pp. 103-104].

Tra i vari protagonisti e deuteragonisti di quegli anni di storia italiana, che si incontrano lungo il testo (una vera folla), spiccano particolarmente, oltre a Moro, che costituisce l'indispensabile “filo di Arianna” del racconto, le figure di Andreotti e del generale Dalla Chiesa.

Proprio alla luce delle drammatiche vicende della prigionia di Aldo Moro, e della “rocambolesca avventura” che il doppio ritrovamento postumo del suo Memoriale rappresenta, Gotor riflette in questi termini sul ruolo politico avuto in quegli anni da Andreotti nell'ambito della Dc e delle istituzioni italiane: in una situazione nella quale coesistevano e si confrontavano costantemente «una Costituzione formale antifascista e una Costituzione materiale anticomunista, in cui entrambi i paradigmi non potevano avere la sufficiente forza inclusiva per fondare un ethos repubblicano condiviso» [Gotor 2011, p. 521] – quindi in una situazione nella quale la via delle decisioni da prendere, con le annesse intese e alleanze, era sempre stretta e impervia, «Andreotti, per vocazione o per scelta, ebbe la capacità di posizionarsi sempre all'incrocio tra i lembi delle due cesure, quella antifascista e quella anticomunista, senza appartenere mai a nessuna di esse sino in fondo, ma in questo modo cogliendo l'espressione di un volto moderato, profondo e radicato dell'abito politico e civile italiano che ha trovato nella Dc l'interpretazione più persuasiva ed elettoralmente seducente» [Gotor 2011, pp. 521-522].

E' un giudizio di per sé severo, dato che in sostanza offre l'immagine di un potere, quello incarnato dal politico romano, che esiste e agisce solo sottraendosi a ogni precisa definizione e caratterizzazione ideale e ideologica, tutte potendole racchiudere in sé in maniera evanescente; ma forse è anche più incisiva questa definizione che del senatore lo studioso offre nel testo: «[...] l'impressione è che Andreotti abbia rappresentato un ruolo di equilibrio imprescindibile nel sistema di potere repubblicano, quello di segnalare l'accensione di una sorta di spia d'allarme, il punto oltre il quale il satellite Italia non avrebbe potuto spingersi nella definizione della propria autonomia nazionale all'interno del quadro dell'Alleanza atlantica» [Gotor 2011, pp. 520-521].

Per costituire un punto d'equlibrio, però, e per poter marcare una certa autonomia nella propria azione di governo rispetto ai molteplici condizionamenti, nazionali e internazionali, Andreotti era tenuto a muoversi con una certa spregiudicatezza, in un terreno allora particolarmente minato da “impegni atlantici” in qualche modo imperativi, turbolenze sociali e minacce di golpe, e Gotor, nel momento in cui descrive con nettezza tale situazione, è sempre attento nel testo a non lanciargli accuse campate in aria, o basate sulle tante “leggende” fiorite intorno alla sua figura; e tuttavia il suo giudizio sul politico democristiano, con tutte le attenuanti del caso (legate, come si è visto, principalmente alle difficoltà oggettive, storiche e “ambientali”, nelle quali è stato costretto a operare), suona nel complesso negativo.

Contorni ben diversi assume la figura politica di Moro. Il Memoriale scritto durante la prigionia, in condizioni drammatiche, e che quindi rispecchia solo in una certa misura il vero pensiero del politico pugliese, contiene tuttavia alcune acute osservazioni e intuizioni che sono senz'altro frutto genuino della sua penna e della sua intelligenza. Ad esempio – sottolinea Gotor – Moro vide e scrisse con chiarezza, in quel documento sofferto e controverso, che esisteva una parte dell'opinione pubblica italiana che coglieva con favore gli «effetti destabilizzanti della strategia della tensione» [Gotor 2011, p. 523].

Era una verità difficile da gestire e quindi persino da pronunciare, allora, nel mondo politico ufficiale italiano, eppure per chi viveva la realtà di quegli anni si trattava del “segreto di Pulcinella”; certo, solo dall'osservatorio privilegiato delle istituzioni potevano esserne stimate la portata e l'estensione, e se ne potevano conoscere le implicazioni, ma fu Moro, rileva Gotor, a mostrare chiara consapevolezza del fatto che una parte degli italiani «in realtà aveva subito la Costituzione senza accoglierla intimamente, indifferente e impermeabile alle regole democratiche», in particolare «La generazione degli anni Venti, quella nata sotto il regime fascista ed educata al culto del Duce» [Gotor 2011, pp. 523-524]. La Dc aveva costituito un argine che nel dopoguerra aveva saputo contenere «le pulsioni sovversive di quegli ambienti [...] entro l'alveo democratico»; così come, nell'avverso campo politico, il Pci di Togliatti e Longo era riuscito a convogliare verso la democrazia energie e uomini che altrimenti si sarebbero spesi per riprodurre in Italia il “laboratorio sovietico”, e dunque per edificare il “socialismo reale” al posto della democrazia [Gotor 2011, p. 524].

Moro – ricostruisce Gotor – aveva compreso, nella situazione drammatica degli anni Settanta, che due forze in apparenza opposte avevano cooperato, consapevolmente o meno, per ostacolare con ogni mezzo, non escluse le misure estreme, la sua politica mirante al rafforzamento delle basi democratiche del Paese: «l'una rivoluzionaria di origine secchiana (antitogliattiana prima e antiberlingueriana poi) e l'altra reazionaria di stampo neofascista e non solo, accomunate da un palese rifiuto dei riti e dei contenuti della democrazia parlamentare. Due tendenze opposte e radicali dalla lunga storia e dalle profonde radici [...]» che Moro, ben conoscendole, aveva avversato e contrastato finché aveva potuto [Gotor 2011, p. 524].

[Nota 1: l'aggettivo “secchiana”, utilizzato qui da Gotor, deriva da Pietro Secchia, a lungo leader dell'ala “rivoluzionaria” del Pci, il quale rimase sempre convinto della necessità di “fare come in Russia”, e quindi in sostanza, a differenza dei “togliattiani” e in genere della componente maggioritaria del partito, ferocemente critico nei confronti della democrazia “borghese” e del “parlamentarismo”.]

[Nota 2: un ottimo testo di Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964 (Mondadori, Milano 2010) ricorda nei vari dettagli, e in modo mirabile, l'ostilità pesante, e talora vagamente minacciosa, della quale Moro fu fatto oggetto nel 1963-64, da parte dei settori più conservatori, se non addirittura reazionari della politica e della società italiane, quando si trovò a presiedere i primi governi di centro-sinistra. Inoltre, Franzinelli spiega che, nonostante la “leggenda” nata intorno al “Piano Solo”, non di vero golpe si trattò; e scagionando il generale De Lorenzo dalle accuse più gravi, ridimensiona la figura del presidente Segni.]

Il politico pugliese inoltre comprese la gravità della crisi nella quale si trovavano già allora i partiti italiani, e nel Memoriale, oltre a menzionare diversi episodi di finanziamento illecito dei partiti, parla a chiare lettere di «un regime che si va corrompendo, quasi consumato in se stesso dalle proprie irrimediabili deficienze», regime che però «avrebbe rinviato la sua consunzione di quasi un quindicennio perché le parole di Moro sembravano prevedere la crisi di Tangentopoli del 1992 che coinvolse tutti i partiti [...]» [Gotor 2011, p. 545].

Il lavoro di Miguel Gotor è degno di menzione anche perché egli – da storico di professione qual è – evita le insidie nelle quali rischiano di incorrere gli “storici della domenica”, o i pamphlettisti rampanti, come l'eccessiva fede riposta nei documenti cartacei e nelle testimonianze oculari.
Come saggiamente spiega lo studioso, «se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale siano necessarie ma non sufficienti alla formulazione di un giudizio storico in quanto determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, rispettabilità, paure, ambiguità, orgogli, errori, segreti, fedeltà e obbedienze che costituiscono il porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di un'avventura di conoscenza»
[Gotor 2011, pp. 69-70].

Contemporaneamente, lo storico serio evita di cedere all'opposta tentazione di riempire i vuoti con fantasiose congetture e dietrologie “complottiste”, tanto suggestive quanto inattendibili, come pure Gotor sottolinea a più riprese.

Quanto ai documenti cartacei, in un passo del saggio, lo storico, parlando di un documento ufficiale che è risultato a un'attenta analisi un clamoroso falso (sia pure ottimamente confezionato), coglie l'occasione per ricordare che gli studiosi devono fare attenzione «a non cedere all'idolatria degli archivi» [Gotor 2011, p. 75]. Nessun documento, da qualsiasi fonte provenga, può essere assunto acriticamente come “oro colato”, ma deve invece essere vagliato, collocato nel suo contesto, ecc., perché se ne possa valutare con il dovuto rigore l'attendibilità.

Inoltre, la verità storica non coincide con la verità processuale, «perché la storia non si scrive mai nei tribunali» [Gotor 2011, p. 301]. Ovvero, uno storico non può limitarsi a registrare i risultati di taluni, pur rilevanti processi penali – come quelli che hanno visto imputato il sen. Andreotti (dei quali nel volume si parla) – per ricostruire gli eventi cruciali e le vicende di una determinata epoca.
Come rileva Gotor, richiamandosi a Marc Bloch, compito eminente dello storico è esaminare e cercare di comprendere, nelle loro complesse dinamiche e motivazioni, «i modi di fare e di agire degli uomini [...] senza giudicare e sempre conservando una propria autonomia di analisi rispetto alle risultanze processuali che non fanno mai la storia, ma sono parte, condizionata e condizionante, di un contesto politico, culturale e civile in cui si svolge il teatro delle vicende umane»
[Gotor 2011, pp. 262-263].

E – a maggior ragione quando si cerca di studiare vicende tanto complesse – «nessuno ha la verità in tasca tutta intera: non il politico, non il magistrato, non il giornalista, non lo studioso, non il cittadino» [Gotor 2011, p. 168]. Eppure, tante, troppe volte, come Gotor documenta nel saggio, nella vicenda del Memoriale di Moro (e in tutti i numerosi aspetti che a questa sono connessi), i soggetti istituzionalmente preposti all'accertamento della verità, ma anche gli organi di stampa, ecc., non hanno dimostrato di saper o voler operare e agire attenendosi a questi princìpi di rigore e prudenza “metodologica”.

Riassumendo e al tempo stesso introducendo la vicenda della quale il testo si occupa, per dimostrarne la permanente attualità, lo studioso scrive:
«[...] questa è una vicenda che prima di tutto ha messo i figli contro i padri, recidendo i legami di solidarietà tra le generazioni e poi ha spezzato in due la storia della Repubblica tra l'età della politica, dei partiti e delle speranze e quella dell'antipolitica, del populismo e del disincanto»
[Gotor 2011, p. 20].

Le accuse che Gotor fa a quelle generazioni, alle loro intrecciate responsabilità, sono dure lungo tutto il testo. Anche perché i semi gettati in quella stagione hanno generato piante – ovvero, fuor di metafora, mentalità, ideologie (prima fra tutte, la cosiddetta “antipolitica” succitata) e comportamenti diffusi – che si rivelano infestanti e difficilmente estirpabili ancora oggi.

L'onda lunga dell'antipolitica – Gotor ne è profondamente convinto – nasce in quegli anni, e in particolare nei dintorni del Movimento del 1977. Alcuni “reduci”, «i giovani buoni, innocenti e libertari» di allora – accusa lo storico – si lamentano di essere rimasti schiacciati e soffocati in una lotta fra “apparati contrapposti” (i terroristi da un lato, lo Stato dall'altro) che non li riguardava [Gotor 2011, p. 348]. E invece molti dei “movimentisti” del 1977, afferma Gotor, hanno solo rimosso il loro ruolo di un tempo; erano contro la democrazia rappresentativa allora, allorché partecipavano ai falò delle auto e agli «spari alla cieca nascosti nel gruppo quando la celere caricava» [Gotor 2011, p. 349], e hanno continuato a esserlo anche dopo, negli anni Novanta e oltre, con nuovi metodi e sistemi, e soprattutto con nuove “vernici” ideologico-retoriche.

 
L'antiparlamentarismo, che è anche antipartitismo e quindi avversione per la democrazia rappresentativa (che, come ci ricorda anche Nadia Urbinati, è una forma evoluta e non deteriore di democrazia), è un leit motiv, o se si preferisce un vezzo o un chiodo fisso, al quale da lungo tempo (perlomeno da un secolo) è affezionata la classe dirigente italiana, e in quanto leit motiv non scompare mai del tutto, ma affiora continuamente, affidandosi di volta in volta agli involucri ideologici più adatti a seconda della moda e della bisogna. Ciò che è costante in questo atteggiamento mentale e culturale della classe dirigente italiana, e di una parte non irrilevante dell'opinione pubblica (della “società civile”, dunque!), è l'«insofferenza per i tempi, i modi e i compromessi della democrazia», ma anche il «disprezzo della politica» con l'annesso «radicalismo delle posizioni» e l'immancabile «qualunquismo degli atteggiamenti», che ha per accompagnamento obbligato il «moralismo delle critiche» e corollario qualificante il «rifiuto delle forme statuali e delle regole a vantaggio di un istinto predatorio anomico e individualista, tendenzialmente irresponsabile» [Gotor 2011, pp. 363-364].

E, come Gotor rileva a più riprese nel testo, interrogandosi sui nebulosi intrecci che la vicenda del Memoriale di Moro contribuisce a rivelare – intrecci che coinvolgono ambienti che in teoria e “sulla carta” sono distanti anni luce l'uno dall'altro – quell'avversione per le “pastoie” della democrazia parlamentare è una delle chiavi che consentono di cogliere l'esistenza di un nesso, di un “comune sentire”, che porta quegli ambienti e quei “pezzi” di società, per altri versi inconciliabili, a trovare convergenze impensabili e talora insospettabili.

L'avversione nei confronti del progetto politico di Aldo Moro, che è stata tanto intensa e ossessiva da sconfinare spesso nel disprezzo della persona e persino della sua memoria, ha accomunato, come una specie di parola d'ordine – ricorda Gotor – «gli estremisti e i reazionari di questo paese», che disinvoltamente, nonostante la loro militanza su fronti apparentemente opposti, «si sono dati la mano in nome e per conto di un'oscura, ma vivacissima pulsione sovversiva, antisistema, renitente al gioco democratico che è prima di tutto un dato psicologico individuale e trasversale, oltre le tradizionali e in fondo convenzionali distinzioni tra destra e sinistra»
[Gotor 2011, p. 195].

In un passo del saggio, quando descrive l'irruzione e la minuziosa perquisizione compiute dalle forze dell'ordine nel famigerato covo di Via Monte Nevoso a Milano, Gotor enumera alcuni degli oggetti di uso quotidiano trovati nel “covo” e, anche grazie all'ottima prosa dello studioso, riusciamo a immergerci con gli occhi dell'immaginazione nell'ambiente sociale dei terroristi e a percepire, per così dire, l'“aria di un'epoca”, curiosando fra le letture preferite di quei brigatisti del 1978 [si veda Gotor 2011, pp. 51-53].

Ma la descrizione di Gotor non è fine a se stessa, non è un semplice pezzo di bravura messo lì per assicurarsi l'attenzione del lettore: in realtà, restituendo a noi lettori di oggi il panorama di testi di riferimento comuni a un'intera generazione di giovani della sinistra “extraparlamentare”, e oggi ormai caduti nel dimenticatoio come fossili di altre ere geologiche, lo studioso vuole dimostrare che la memoria fa “brutti scherzi”, e soprattutto opera rimozioni “strategiche”.

Ovvero, se le letture dei brigatisti non erano dissimili da quelle di molti loro coetanei impegnati all'epoca nei movimenti dell'estrema sinistra non armata, vuol dire che quei “mostri” spietati coi mitra non erano alieni calati improvvisamente da Marte, come la memoria “ufficiale” tenderebbe a farci credere oggi, ma si erano formati negli stessi modi e negli stessi posti di molti altri giovani di allora.

Da questo dato si possono trarre diverse conseguenze: si può accusare, come fa Gotor, il movimento del 1977 di essere stato, in alcuni suoi importanti settori, attiguo (anche se non sempre necessariamente e volutamente complice) rispetto a certe pulsioni terroristiche, o almeno benevolo e sin troppo “comprensivo” e “giustificazionista” rispetto al fenomeno, avendo flirtato fin troppo con l'idea di rivoluzione; oppure si può pensare che il Movimento fosse ricco di energie e di fermenti, carichi di giovanile impazienza, e per questo però anche magmatico, caotico e impreparato a gestire le smisurate, velleitarie ed eccessive aspettative che intorno a sé suscitava – ma che nel complesso (fatti salvi ovviamente i casi di accertate gravi responsabilità in capo a singoli o a gruppi) non fosse causa del male in sé, che veniva da più lontano.
In entrambi i casi, è certo che le “rimozioni strategiche”, con le loro verità di comodo, non fanno mai bene all'etica pubblica e anzi a lungo andare contribuiscono a devastarla, come Gotor giustamente sottolinea.

«La cosiddetta area di contiguità – scrive lo storico – fu un'esperienza politica, culturale e sociale concreta che indusse esponenti dell'establishment progressista a relazionarsi con la realtà brigatista, di cui era apprezzato il nucleo rivoluzionario»
[Gotor 2011, p. 359].

Nel testo, Gotor fa molti nomi e cognomi, e riporta dati documentati; in qualche caso si affida a prudenti congetture – sempre correttamente presentate come ipotesi e mai come verità di fede – ma in generale contribuisce a riaprire un capitolo sempre e ancora in ombra della nostra storia recente, e a richiamare ciascun protagonista delle vicende di allora alle proprie responsabilità, attaccando duramente la propensione italiana e bipartisan (o addirittura “multipartisan”...) alla ricerca dell'alibi di comodo (utile a sottrarsi alle responsabilità di cui sopra).

Dell'“area di contiguità” facevano parte diversi spezzoni della società italiana di quel decennio tormentato, aristocratici, intellettuali, accademici, ma anche molti giovani che dalla profonda provincia (e a quell'epoca la provincia era più “profonda” e stagnante di oggi) si recavano nelle metropoli con la speranza di inserirsi nell'ingranaggio dell'industria, rimanendo però frustrati nelle loro aspettative e guatavano con risentimento un sistema sociale che li costringeva, già allora, a un mortificante precariato [Gotor 2011, p. 359].

Il fatto è che, pur tentati da un sovversivismo radicale come risposta confusa a un malessere generazionale e sociale, non compresero – come del resto non lo compresero neppure i loro fratelli maggiori che “avevano fatto il Sessantotto” – che un intero sistema politico, con le nicchie di benessere che era stato qua e là in grado di assicurare mediante uno sfrangiato modello di Welfare, si stava avviando verso la propria inesorabile crisi.

A proposito della “biblioteca” del brigatista-tipo ricostruibile in base ai testi trovati nella prima perquisizione di via Monte Nevoso, Gotor in particolare commenta:

«Si tratta di un pacchetto di libri assai lontani dall'armamentario tipico del militante comunista iscritto al Pci, piuttosto sono letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con suggestioni anticapitalistiche, terzomondiste, trockijste, maoiste, guevariste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di sicura ispirazione antistalinista»
[Gotor 2011, pp. 53-54].

Le Brigate rosse, afferma quindi Gotor, non si erano formate sullo stalinismo di un certo Pci degli anni Cinquanta, come erroneamente indicò all'epoca Rossana Rossanda, e di conseguenza con la tradizione del Partito Comunista Italiano, nel bene e nel male, non avevano nulla da spartire; però fece comodo ai nemici del Pci far credere il contrario. Fece comodo agli anticomunisti di destra, in quanto così si «amplificava una generale ossessione anticomunista» e si aveva la ghiotta possibilità «di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana»; ma fece comodo anche agli anticomunisti (nel senso soprattutto di “anti-Pci”) libertari e movimentisti di estrema sinistra, poiché questi avevano in tal modo l'opportunità «di rimuovere, o almeno di stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato mondo extraparlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica nel suo complesso»
[Gotor 2011, p. 54].

Insomma, per Gotor la “radice” stalinista delle Br (e quindi il loro presunto rapporto di discendenza ideologica dal “vecchio” Pci degli anni Cinquanta) non solo era una leggenda senza fondamento, ma soprattutto si rivelava «un comodo alibi catartico per non guardare in faccia la realtà, la metastasi cresciuta dentro il corpo estremistico e radicale della società italiana»
[Gotor 2011, p. 54].

Ma il vizio del radicalismo “antipolitico” viene da molto lontano, come lo stesso Gotor riconosce.
Non riguarda soltanto le frange “estreme” o “estremiste” della società, ma anche il ruolo della stampa e dell'opinione pubblica; lo studioso, nel ricordare il ruolo svolto dal quotidiano “la Repubblica” nei giorni del primo ritrovamento del Memoriale di Moro, rileva che un giornale come quello (ma non era e non sarà il solo, nella storia italiana) svolse allora un ruolo di stampa d'inchiesta impegnata, secondo un'idea di giornalismo “alto” «non inteso però come contropotere informativo all'anglosassone, ma come antipolitico all'italiana»: e tale modello “all'italiana” prevede una stampa che si schieri «nella lotta quotidiana per supplire alle presunte carenze dei partiti e per provare a stimolare la loro azione dall'esterno in nome e per conto di un pubblico di lettori persuaso di essere per definizione migliore dei suoi rappresentanti»
[Gotor 2011, p. 121].

E' l'idea di fondo dalla quale scaturiscono molte delle battaglie di “indignati” di oggi: si accusa la “casta” dei politici senza riuscire a scorgere le “caste” e i privilegi pesantissimi di cui godono molti settori della “società civile”: eh già, perché quest'ultima è per definizione la fonte del bene e della verità, ed è intangibile. E poi, separare “i politici” dal resto della società, come se quelli venissero da Marte (ancora una volta la teoria degli alieni calati chissà da dove!), è utile a far radicare l'idea (che ormai ha il rango di una vera e propria ideologia) che “il male vero è solo altrove... lassù nei Palazzi del Potere Politico” e che “per carità! noi cittadini comuni (compresi fra questi i privilegiati delle corporazioni varie & assortite, i corruttori, gli evasori, gli sfruttatori di lavoro nero...) siamo privi di colpa, immacolati e puri!”.

Secondo la ricostruzione di Gotor, proprio i protagonisti degli «antichi furori militanti» del '77 hanno convertito quel loro “fuoco sacro”, dopo la schiacciante vittoria del liberismo degli anni Ottanta e seguenti, in «furbizia ed equidistante moralismo, due attitudini che avrebbero concorso a forgiare il corpo molle dell'opinione pubblica nel corso degli anni Novanta» [Gotor 2011, p. 360].

Su parte della stampa militante dell'area movimentista-extraparlamentare del '77-'79, come documenta lo storico, si leggevano già articoli e saggi che «negavano il sistema dei partiti e l'autonomia della politica» giustificando tale rifiuto concettuale con la forza della rivoluzione; ma una volta venuta meno la prospettiva rivoluzionaria, la conclusione – ovvero la negazione dei partiti, ecc. – è rimasta intatta, superstite di ogni terremoto politico-culturale, ed è cambiata solo la giustificazione ideologica di quella posizione, sicché – argomenta Gotor – alla luce di tale trasformazione quasi “gattopardesca”, la “rivoluzione” sbandierata in quegli anni si è rivelata uno strumento al servizio delle stesse «dinamiche di potere» che (a parole!) si volevano contrastare e mettere in crisi: potere «finanziario, pubblicitario, urbanistico, giornalistico ed editoriale, gli ambiti di impegno professionale prevalenti che accompagnarono la fuoriuscita di una parte significativa di quella generazione dalle secche di questa storia» [Gotor 2011, p. 363].

Nel volume di Gotor c'è molto, moltissimo altro; io non ho dato qui che alcuni cenni, per nulla esaustivi, dei suoi contenuti: ritengo che sia una lettura utilissima, che consiglio a chiunque (e specialmente a coloro che non smettono di interrogarsi sugli “eterni misteri” della Repubblica italiana: nel libro c'è molto materiale su cui riflettere, a questo proposito).

Detto questo, colgo lo spunto che il volume di Gotor mi offre, per esprimere qualche personale precisazione, e qualche mia cauta perplessità.

Sono d'accordo sulla critica alla retorica dell'antipolitica – quando questa è appunto pura retorica manichea, che ritiene buoni per definizione la società civile e i “cittadini comuni” e cattivi per definizione i politici in quanto tali.
Ma... c'è un “ma”, e non di poco conto: i partiti – quelli di allora come quelli di oggi – non hanno proprio nulla da rimproverarsi, in proposito? E' stato il semplice livore dei movimenti a rovinare i partiti, o non hanno contribuito in larga misura essi stessi, con errori, omissioni, arroganza, alla loro “rovina”, o alla cattiva stampa di cui oggi godono?

La corruzione non ha di fatto costituito un “sistema”, che di politico ha ben poco, e molto ha, invece, di puro, cinico, amorale “affarismo”, come le vicende delle “Tangentopoli” di ieri e di oggi hanno dimostrato e dimostrano? E allora, quando i partiti, o pezzi di questi (non importa quanto grandi o quanto piccoli), si svestono del loro abito “politico”, per indossare la casacca dell'“affarismo”, tradiscono il loro ruolo; e criticare questo tradimento del ruolo non è antipolitica; a mio parere è invece invito, persino disperato appello, a tornare alla politica. Purché, ripeto, si sia capaci di discernere, di argomentare, e di evitare la retorica manichea e qualunquista.

Lo stesso Aldo Moro, come si è detto, nel suo Memoriale, non è stato affatto tenero con l'autoindulgenza dei partiti politici italiani, che del resto rispecchia l'autoindulgenza di tutte le “costellazioni corporative” delle quali è composta la società (civile?) italiana, custodi di privilegi e di tabù.

Se insomma è sbagliata la demonizzazione aprioristica dei partiti politici, è a mio parere ugualmente sbagliata la demonizzazione aprioristica dei movimenti in quanto tali. Mai come in questo frangente, bisogna avere la forza e la capacità di distinguere caso da caso. E identificare i movimenti ipso facto con l'antipolitica – come talora sento dire o leggo – è un errore di prospettiva, ma rischia anche di essere un'altra forma di manicheismo, o una forma aggiornata e inedita di qualunquismo - rivolta in questo caso "verso il basso" - che tutto accomuna in un'unica categoria dell'indistinto, perché nulla davvero vuol conoscere nella sua singolarità e peculiarità.
Non facciamo questo errore, per carità!

(E il guaio di molte persone oggi impegnate in politica e nelle istituzioni, lo dico per averlo constatato "dal vivo" in più occasioni, è la loro scarsa conoscenza dei temi sociali e dei movimenti: presumono di conoscerli, e in quella presunzione ritengono debba esaurirsi il loro compito. Il musicista, quello bravo, può permettersi di suonare, come si suol dire, "a orecchio"; il politico no, non deve andare "a orecchio", ha il dovere di documentarsi prima di parlare e di dialogare.)

E ancora: il Pci di ieri non corrisponde al Pd di oggi (né ad altri partiti oggi presenti sulla scena). Così come il Movimento del 1977 non corrisponde davvero, al di là del "guscio", ai Movimenti presenti nella società italiana di oggi. 
 
(Non a caso oggi, parlando di movimenti, non si può che usare il plurale; e se prendiamo in considerazione i movimenti sorti all'interno della cosiddetta galassia “no global”, e in particolare il movimento per i beni comuni, che ha fortemente sostenuto e promosso, oltre che vinto, il recente referendum per la ripubblicizzazione dell'acqua, non potremmo in alcun modo classificarlo come “extraparlamentare” se con tale definizione indichiamo, come negli anni Settanta, un movimento che si colloca programmaticamente al di fuori del parlamentarismo in quanto insofferente nei confronti della “democrazia borghese”. 
Movimenti come quello dei beni comuni oggi richiedono e rivendicano piuttosto spazi di democrazia partecipativa e quest'ultima non necessariamente è antitetica rispetto alla democrazia rappresentativa: il dibattito è tuttora aperto, ma certamente - a differenza di allora, e che differenza! - non prevede l'esaltazione della “presa del potere” con ogni mezzo, poiché il fine non giustifica i mezzi, e dei mezzi adottati si deve sempre render puntualmente conto, giacché non sono un "dettaglio" trascurabile; e last but not least, va ripetuto, la difesa della democrazia - di quella garantita dalla Costituzione, che è l'unica democrazia che oggi abbiamo - è un punto imprescindibile e irrinunciabile.)

Di acqua ne è passata sotto i ponti, e il panorama politico di oggi presenta coordinate differenti rispetto a quello di ieri; in effetti, se è giusto cogliere elementi di continuità tra il passato (anche recente) e il presente, è importante e indispensabile anche sottolineare gli elementi di discontinuità. Le differenze sono altrettanto importanti delle somiglianze, perché le une come le altre contribuiscono a caratterizzare i soggetti, le epoche, le idee.

Ma ora per chiudere torno ai ricordi, lasciati in sospeso. Le scene relative al ritrovamento del cadavere di Moro, mandate in onda dagli schermi televisivi, sono sfocate nella memoria; ricordo che chiesi a mio padre: “Ma è Roma, quella?”.
Sì, perché mi sembrava una città spettrale, surreale, più simile alla “Roma città aperta” provata da anni di guerra e di occupazione che non all'idea della Roma bella e imponente capitale, “urbe” unica al mondo, che ci veniva inculcata nelle lezioni di storia antica e di geografia.

E non riuscivo a credere che un uomo che fino a pochi mesi prima, in quanto autorevole, capace, famoso, rispettato, era sempre al centro di discorsi e polemiche, perfino possibile candidato alla presidenza della Repubblica, ora potesse essere finito lì, come nelle ultime sequenze di un giallo angosciante e claustrofobico di quegli anni, gettato nel bagagliaio di un'auto qualsiasi, in una strada qualsiasi: pur nella mia infantile inesperienza capivo che erano state infrante delle regole importanti, che servono a separarci dall'idea folle che tutto è possibile, anche morire perché qualcuno ti ha condannato, chissà dove, chissà perché, e tu non puoi capirlo e neppure farci nulla, tantomeno sfuggire. Se dormi si chiama incubo; ma se sei sveglio, chi può salvarti? Chi ci libera dalla prigione immensa creata dal sogno di qualche essere umano che si proclama onnipotente, tiene d'occhio intere città con eserciti invisibili di orchi inafferrabili, e decreta, decide, senza mai concedersi tregua o dubbio, chi deve morire e chi salvarsi?

Quando si è bambini certo i pensieri non hanno queste parole, e anzi s'incollano a qualche immagine; ma forse per questo sono anche più penetranti e duraturi.


Testo citato:

[Gotor 2011]: M. Gotor,  Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino.

6 commenti:

  1. Davvero molto interessante.
    Mi piacerebbe leggerlo (ed il tuo post è stato molto stimolante in quanto "invito alla lettura"), anche se dovrei prima fare i conti con la mia pigrizia verso i saggi (avendo sempre prediletto la lettura di romanzi e racconti).

    Da sempre - e forse perché proprio come te ero bambina in quegli anni e quindi incapace di comprendere appieno la realtà che mi circondava, pur subendone una certa fascinazione (e sempre ammesso che una simile operazione di comprensione oggettiva della realtà sia davvero possibile) - nutro una certa curiosità per i cosiddetti "anni di piombo" e in particolare per la vicenda Moro.
    Sono convinta che tentare di analizzare quel periodo possa essere utile soprattutto per afferrare, non tanto i meccanismi che regolano l'Italia politica e sociale di oggi, poiché un'analisi del presente non può prescindere appunto dal contesto presente (rivoluzione digitale, economia globale, denaro virtuale, consumismo di massa, nuovi schemi comportamentali e sociali ecc., sono tutti "fatti nuovi" che rendono la nostra società e la politica profondamente diverse da quelle degli anni settanta), quanto invece i "vizi" (così come i pregi, insomma, le peculiarità) che contraddistinguono ogni cultura, nello specifico quella del nostro paese.
    Ogni paese è fatto a modo suo (ed ogni paese si è formato nel tempo su stratificazioni di conquiste, linguistiche, religiose, avvicendarsi di colonizzazioni e di incontri tra diverse culture, connubi di questo e di quell'altro insomma) ed è forse più utile analizzare come "risponde" piuttosto che "perché".
    Allora, in quest'ottica, è senz'altro interessante chiedersi perché da noi gli impulsi rivoluzionari di quegli anni si sono poi manifestati in specifiche forme e non altre e perché hanno dato certi esiti e non altri e come è stata possibile la proliferazione di un sistema - che su quelle ceneri andava a formarsi - piuttosto che di un altro.
    Il nocciolo, secondo me, non dovrebbe essere tanto il fatto in sé, quanto la REAZIONE al fatto in sé.
    (continua)

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  2. Sono d'accordo con te quando dici che la "colpa" non può essere tutta dei politici e dei partiti come fossero degli alieni venuti da Marte ed avessero preso in mano i fili di noi cittadini-burattini al fine di manovrarci e nemmeno, d'altro canto, tutto si può banalmente ridimensionare imputandolo al "carattere" specifico della nostra nazione (si scadrebbe nel qualunquismo, nel disinteresse totale, nella rassegnazione); credo però che un "vizio congenito" ci sia se - a livello microscopico del quotidiano - io scorgo gli stessi schemi che poi risultano amplificati a livello di potere politico.

    Sarà una considerazione banale, ma come si può pretendere, ad esempio, di combattere l'evasione fiscale se ognuno, nel proprio piccolo giardinetto, evade?
    Insomma, non starò a parlare dell'inedia stagnante del lavoro statale, degli uffici dove non c'è mai personale, del disinteresse di ognuno di risolvere un problema perché "compete sempre a qualcun altro", ma è vero che nel nostro paese nessuno si prende mai le proprie responsabilità; la colpa è sempre di qualcun altro.
    Gli Uffici Postali non funzionano? La colpa è dei nuovi computer che ancora non funzionano. Ma perché in Inghilterra, ad esempio, questo non accade mai o raramente e, quando accade, è comunque un punto di disonore per il paese?
    Questi sono "vizi" della cultura specifica di un popolo che fungono da lente di ingrandimento di tutta una serie di questioni.
    Ed analizzare i movimenti extraparlamentari ed il comune sentire degli anni di piombo attraverso gli esiti e la peculiare maniera in cui poi tutto ciò è stato applicato, metabolizzato, si è manifestato (ossia, la "reazione") è utile appunto se utilizzato come lente di ingrandimento (come "punto focale" a partire dal quale possa venir fuori un metodo d'indagine finalizzato ad una comprensione più ampia) al fine di individuarne e correggerne le varie distorsioni. Che, ripeto, fanno parte del nostro paese in quanto manifestazioni di una specifica cultura e di cui la politica, il potere, i partiti ecc. si sono sempre serviti come strumento.

    L'errore, a livello macroscopico (per quel che concerne il Potere Politico, i Partiti ecc.) è proprio nella continua strumentalizzazione che ha operato nei confronti delle debolezze congenite del nostro paese. Strumentalizzazione che è iniziata proprio con Andreotti e la DC.
    E' come se i partiti, le istituzioni, il potere politico ecc., anziché adoperarsi per risolvere le debolezze caratteriali del paese (che metaforicamente può essere visto come un singolo cittadino), si fossero serviti proprio di queste debolezze per realizzare i propri scopi.

    Un Andreotti, fuor dall'humus italiano in cui ha avuto modo di formarsi e di agire, non sarebbe mai esistito (così come un Berlusconi oggi). E questo è sintomatico.

    Non dimentichiamo poi il peso che nella nostra storia politica ha avuto ed ha tuttora il Vaticano. E la mancanza, ovunque, di trasparenza. Come se non si avesse mai il coraggio di punire, di fermare, di compiere una vera rivoluzione.
    Quello che conta, è tenere a bada il proprio orticello e le proprie prerogative.

    Ecco, partire dall'analisi contingente di un determinato periodo storico (con precisi fatti politici e di cronaca quale il caso Moro) può aiutare forse a comprendere (e mi sembra sia questo il fine del saggio di Gotor); quello che non credo possa fare sia "risolvere", in quanto la causa non è mai esterna ma si sprigiona dal di dentro.
    (continua ancora)

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  3. Ecco, un'altra delle costanti che io ravviso nella storia italiana dagli anni settanta in poi (finanche oggi) è la propensione a "demolire" (istinti rivoluzionari, insofferenza verso le istituzioni, politiche e non, critica della democrazia rappresentativa come sistema), senza però offrire una chiara alternativa.

    Non ci va bene nulla, siamo tutti "anarchici" nell'anima, e però pretendiamo servizi e funzionamenti da parte delle istituzioni.

    Siamo tutti anti-borghesi e però la corrente a poco prezzo per internet e la lavatrice sì, la macchina sì, il cellulare sì, l'abito firmato sì.

    Siamo tutti contro "questo e quello", salvo, in privato, utilizzare proprio "questo e quello" che tanto viene criticato.

    Almeno io, nell'Italia e negli Italiani ravviso questa comportamento, da sempre. I sessantottini, le BR, oggi stanno tutti dentro le Istituzioni (molti ex-terroristi hanno raggiunto posizioni di riguardo, posizioni che un tempo avrebbero giudicato "borghesi"). Allora, che facevano, scherzavano? Scusate eh, abbiamo scherzato.
    Questa è l'Italia.
    Siamo stato alleati dei Tedeschi durante la seconda guerra, poi arrivano gli Americani e ops... scusate, eh, noi facevamo finta.
    Si può prescindere da questi comportamenti storici? Secondo me, no.

    L'Italiano di oggi lo riassumo così: "Facebook? Non mi piace, è un modo per carpire i nostri dati, e poi è un sistema in cui vige la censura, sono dei bacchettoni ecc., però intanto l'account me lo faccio"

    Insomma, rivoluzione extraparlamentare, sì, ma il fine, il sogno, qual era? Che io mica l'ho capito. Come direbbe Shakespeare "Tanto rumore per nulla".
    Questa è l'Italia.
    Ci indignamo tutti, poi, girati dall'altra parte, baciamo le mani a chi ci ha fatto indignare (ovviamente eccezioni singole a parte, che però, restano frammentate, non inglobate, e quindi, ancora una volta, strumentalizzate, come poi sono sempre stati i "movimenti" extraparlamentari, finanche le BR alla fine).
    Per esempio,la stessa cosa la noto nei movimenti animalisti (ecco, sarebbe interessante un'analisi di questi a fungere da ulteriore lente di ingrandimento per mettere a nudo difetti ed idiosincrasie tutte italiane): manca un leader. Tutti a farci la guerra tra di noi (screditandoci a vivenda) anziché coalizzarci per un unico comune denominatore (porre fine allo sfruttamento animale).
    Animalisti di destra che criticano quelli di sinistra, come se il fine nobile di preservare ogni specie vivente fosse solo una questione politica; e sarà anche politica ("tutto è politica" dice Truffaut ne "L'ultimo metrò"), ma forse quando si sta tentando di mettere in atto una vera rivoluzione ci si dovrebbe concentrare più su un fine comune che sulle divergenze. Che poi, questa frammentazione tutta italiana, non sarà per caso l'ennesima scusa per non fare nulla?

    Mi fermo qui per il momento ;-)
    Grazie per aver introdotto un argomento così stimolante. E magari ci provo a leggere Gotor ;-) (ripeto, la curiosità c'è, ma anche un po'di pigrizia, sarà che sono italiana anche io e che la pigrizia è un altro di questi difetti che ci portiamo dietro da chissà quanto) :-D

    Un saluto e buona giornata

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  4. Come sempre, Biancaneve, i tuoi commenti accendono in me ulteriori riflessioni. La tua analisi è interessante e non mi è neppure possibile elencare tutti gli spunti importanti che contiene, perché per approfondirli uno per uno dovrei forse scrivere un altro post (e non è detto che prima o poi non lo faccia, visto che si tratta di temi sui quali m'interrogo anch'io).
    Salterò quindi sicuramente molte cose rilevanti fra quelle che hai scritto...
    Ad esempio scrivi: "è senz'altro interessante chiedersi perché da noi gli impulsi rivoluzionari di quegli anni si sono poi manifestati in specifiche forme e non altre e perché hanno dato certi esiti e non altri" (ecc.).
    Già solo questa domanda può essere il tema di un saggio; e me la faccio spesso anch'io. Non ho quindi una risposta pronta, e forse non ce l'ha nessuno (tranne forse qualche studioso più vanesio di altri, che pensa di aver trovato la risoluzione di ogni enigma, storico e sociale - e non è il caso di Gotor, per fortuna, altrimenti non mi sarei occupato del suo testo).
    Posso solo dire che concordo con chi ha detto che il nostro Paese ha avuto un "Sessantotto prolungato", durato più di un decennio; le turbolenze sociali, che altrove si esaurirono con la fine degli anni Sessanta, da noi si sono protratte per una lunghissima, decennale stagione, che ha segnato la nostra storia. Per alcuni (sia conservatori che marxisti "ortodossi") il Sessantotto è la "colpa originaria", ciò che "ha rovinato l'Italia", ha introdotto l'individualismo, il consumismo, il lassismo e... chi più ne ha più ne metta. Per altri, è stata una "stagione magica" (prima c'era il buio, poi c'è stata la luce; e finito il '68, tutto è ridiventato insipido; ecc.). Sono entrambe esagerazioni che, nella loro propensione alla "tifoseria cieca", non aiutano a capire la realtà, i processi, le trasformazioni che quegli anni hanno rappresentato. Certo è che l'Italia conservatrice e bigotta, anche molto ipocrita, presessantottina non poteva più reggersi, perché pretendeva di far valere ancora costumi e "valori" tipici di una società agraria e patriarcale, che in tutto l'Occidente stava inesorabilmente scomparendo. E stava scomparendo anche qui! Chi cercava di ostacolare il cammino della società verso la nuova "forma di vita" (la chiamo per brevità così) semplicemente non si era accorto di aggrapparsi "alle ragnatele", ossia a un passato che si disfaceva rapidamente; il '68 è giunto inatteso per chi quella trasformazione non era riuscito a cogliere. Ma può accadere di sottovalutare un fenomeno - probabilmente anche noi oggi non capiamo cosa c'è veramente nel "cuore" delle trasformazioni in cui siamo immersi e perciò avvertiamo una "crisi" - però la cosa imperdonabile è l'ostinazione ottusa. Io ritengo che da noi una parte notevole delle responsabilità del prolungarsi della stagione sessantottina l'ha avuta la classe dirigente, che per un bel pezzo ha cercato di contrastare in modi anche bruschi e sbrigativi (e talora giocando anche "sporco": ma si sa, le classi dirigenti, quando sentono tremare il terreno sotto i piedi, perdono la bussola...) le richieste di cambiamento che provenivano "dal basso".
    Poi, a questa si sono aggiunte le responsabilità della "società civile"... e qui si dovrebbe seriamente cercare di indagare per trovare i "perché" alla domanda che tu poni (come mai da noi si pensò alla "rivoluzione" in quelle forme, a loro volta anch'esse fuori tempo massimo, forse, visto che si rifacevano a categorie rivoluzionarie, sì, ma del passato?).

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  5. Condivido anche la riflessione che fai sulla mancanza di senso della responsabilità, che è in effetti un "vizio" tangibile, del quale ciascuno può fare esperienza nella vita di tutti i giorni, nel nostro Paese: la colpa sta sempre "altrove", non è mai mia, non spetta a me riparare, darmi da fare...
    Ed è vero, come dici, che da lungo tempo le classi dirigenti italiane si sono garantite spazio, potere, sopravvivenza, legittimità proprio assecondando le peggiori "tendenze" italiane. Anche perché è molto più comodo: si fa meno fatica a "lisciare il pelo" piuttosto che a cercare di affrontare i problemi limpidamente, pronunciando parole chiare e nette. La politica dovrebbe consistere soprattutto nell'assumersi delle responsabilità, nel dare esempio. E che esempio di senso della responsabilità davano quei democristiani che ancora negli anni Settanta negavano l'esistenza della mafia? O quei politici che per decenni hanno negato l'esistenza (e soprattutto l'ampiezza preoccupante) delle collusioni fra politica e malaffare? C'è però anche da porsi qualche scomoda "domandina" riguardo a coloro che, da elettori, certi politici li votavano, *sapendo esattamente* chi e perché votavano (qualcuno tra quegli elettori magari sarà stato anche ingenuo, disinformato e sprovveduto, ma proprio soltanto "qualcuno", suvvia...).
    Ecco, sarà un mio difetto, ma non sopporto una categoria che in Italia ahimè abbonda: quella degli "indignati incoerenti", la cui condotta quotidiana smentisce le parole delle loro prediche. E in proposito mi rifaccio a quella parte dei tuoi commenti in cui scrivi: "Siamo tutti anti-borghesi e però la corrente a poco prezzo per internet e la lavatrice sì, la macchina sì, il cellulare sì, l'abito firmato sì" (ecc.).
    Sottoscrivo in pieno!

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  6. Altra tua riflessione che condivido molto:
    "Non ci va bene nulla, siamo tutti "anarchici" nell'anima, e però pretendiamo servizi e funzionamenti da parte delle istituzioni."
    Si tratta secondo me di uno degli aspetti di quell'individualismo irresponsabile, di cui si parlava prima. Si basa sul principio: "A me tutta la libertà e tutti i diritti; al resto del mondo gli obblighi e le sanzioni, se per caso il resto del mondo osa non rispettare la *mia* libertà e i *miei* diritti".
    E' un individualismo da eterni adolescenti, in un certo senso; e spiega perché, finché l'umanità non sarà dotata di una certa maturità, l'anarchia rimarrà un puro "giocattolo" concettuale (un giocare a "come sarebbe bello se..."), inapplicabile alla lettera. Del resto, appunto, l'anarchia possibile in Italia ce l'abbiamo già!
    Ti domandi giustamente: "Insomma, rivoluzione extraparlamentare, sì, ma il fine, il sogno, qual era? Che io mica l'ho capito".
    Il bello è che la maggior parte di coloro che allora sostenevano quel sogno, ora lo rinnega, concedendosi il vezzo italiano dell'elogio dell'incoerenza (quando torna comodo: salvo poi, anche qui, lamentarsi dell'incoerenza e dell'irresponsabilità *altrui* quando ci danneggia...). E d'altro canto, chi invece continua a rimanere fedele a quelle idee, usando lo stesso linguaggio che usava allora come se il tempo non fosse mai passato, rischia di fare la parte del giapponese che a dieci anni dalla fine della guerra mondiale continuava a lottare nella giungla, non accorgendosi che il mondo nel frattempo era andato altrove.
    Ecco, ci manca quasi sempre l'equilibrio: per amore della retorica, ci innamoriamo sempre delle posizioni estreme (e anzi, gioco di società sempre in voga è: facciamo la gara "a chi è più anticonformista ed estremista"); poi, quando ci accorgiamo della loro insostenibilità, o ci rifugiamo nell'elogio dell'incoerenza, come uscita di sicurezza, o facciamo il "giapponese rimasto nella giungla", che è un modo patetico o sterile di abbracciare la coerenza. Insomma, mai fare i conti con le nostre responsabilità, eh: gira e rigira si torna sempre là: o trovo l'alibi dell'incoerenza - la sfacciataggine, da imbonitore o da miles gloriosus, ha sempre molto "mercato" in Italia - oppure faccio l'eternamente reduce di qualcosa, eternamente fedele alla linea, laggiù nella giungla, così mi premieranno per la mia coerenza, impietositi dalla mia "purezza", anche se non ho più nulla da dire al mondo che mi trovo davanti, e mi lasceranno in pace nella mia nicchia di nostalgie, dove non devo dare conto a nessuno di ciò che ho detto e fatto - anzi, magari trovo altri esuli della giungla come me, e insieme continuiamo a darci ragione l'un l'altro, mentre il mondo là fuori continua ad andare altrove.
    E - altro tema legato a questi - uno dei rischi che vedo nei movimenti (interessante il riferimento che fai al movimento animalista; io conosco meglio quello dei beni comuni, e la situazione rischia di essere analoga...) è proprio quello del dividersi all'infinito su tutto. La discussione è essenziale nei movimenti, ma quando diventa l'unica ragione d'essere - e allontana indefinitamente il momento cruciale in cui si devono tirare le somme - può diventare il tallone d'Achille di tutto l'edificio. Ma anche questo potrebbe essere argomento per un altro post...

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