Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

sabato 14 aprile 2012

Europei, non rinunciate alla democrazia. Lo dice anche Amartya Sen...


Anche Amartya Sen - economista e politologo di fama mondiale, professore all'Harvard University, nonché Premio Nobel per l'economia - in una recentissima intervista (risale a giovedì scorso) rilasciata ai giornalisti Olaf Storbeck e Dorit Heß per il quotidiano tedesco “Handelsblatt” (specializzato in economia e finanza), afferma di vedere la democrazia in pericolo in Europa.

L'intervista è riportata anche in inglese, sul blog di Storbeck, “Economics Intelligence” [è questa la fonte dei passi riportati (e tradotti) sotto; la traduzione in italiano è a cura del sottoscritto], e a mio avviso contiene spunti importanti in ogni sua parte, anche quando tocca argomenti più “tecnici” riguardanti le teorie economiche.

Non potendo tradurla integralmente (anche perché, per le regole che mi sono imposto di seguire in questo blog, dovrei poi anche commentarla tutta...), mi limito a indicare alcuni passaggi che sono significativi in tema di “democrazia” e procedure democratiche, e più in generale in tema di decisioni politiche.


Già all'inizio dell'intervista, A. Sen entra nel vivo della questione che qui ci interessa.

«Domanda: Professor Sen, lei ha l'impressione che gli economisti e i soggetti deputati ad assumere decisioni di politica economica stiano imparando le giuste lezioni dalla crisi economica e finanziaria più grave dai tempi della Grande Depressione?

Risposta: Penso proprio di no. Sono piuttosto deluso dal tipo di pensiero economico nonché di pensiero sociale che mette in relazione l'economia con la politica.

Cosa c'è che non va?

Molti aspetti delle decisioni politiche sono sbagliati, specialmente in Europa. Il primo è un venir meno della democrazia [a democratic failure: lett., "cedimento democratico", "cedimento/fallimento sul piano della democrazia"]. Una politica economica dev'essere in definitiva qualcosa che la gente comprende, apprezza e sostiene. In nient'altro che questo consiste la democrazia. Il vecchio concetto “niente tasse senza rappresentanza” [“no taxation wihout representation”] in questo momento in Europa non c'è.

In che senso?

Se vivete in un Paese del Sud, in Grecia, in Portogallo e in Spagna, le opinioni degli elettori sono molto meno importanti delle opinioni dei banchieri, delle agenzie di rating e delle istituzioni finanziarie. Un effetto dell'integrazione monetaria europea, in assenza di un'integrazione politica, è che il popolo di molti di questi Paesi non ha voce. L'economia è sganciata [de-linked: lett., "disconnessa", "scollegata"] dalla base politica. Il che io ritengo sia un errore, ed è in totale contrasto rispetto al grande movimento europeo che iniziò negli anni Quaranta e promosse l'idea di un'Europa unita e democratica.»

I deleteri effetti del “deficit democratico” che molti da tempo avvertivano in Europa sono ora macroscopicamente evidenti.
Le politiche economiche, in democrazia, sono un “affare del popolo” e, come ricorda Amartya Sen, devono passare attraverso le istituzioni rappresentative in maniera sostanziale e non semplicemente formale (come sta ora accadendo): le istituzioni rappresentative, cioè, non devono limitarsi a ratificare quanto è stato deciso da altri - altrimenti il loro ruolo viene svilito e le loro competenze costituzionali stravolte o addirittura violate - ma devono effettivamente discutere nel merito i provvedimenti, rapportandosi in un feedback continuo, ininterrotto e privo di “interdizioni”, con i cittadini.

E non c'è emergenza che tenga! Il grimaldello (o lo spauracchio) dell'emergenza è stato sempre brandito e utilizzato con rara maestria da chi voleva, per una ragione o per l'altra, liberarsi del “fardello” costituito dal controllo popolare delle decisioni e degli atti politici.

Sulle responsabilità che le singole forze politiche o i singoli partiti hanno avuto o hanno nel determinarsi della situazione che ci ha condotto a questo punto si può e si deve senz'altro discutere; ma questa discussione non può diventare un pretesto o un alibi per disfarsi delle procedure democratiche. C'è chi preme visibilmente affinché determinati organismi dell'Unione Europea e certi suoi procedimenti decisionali, approfittando di questo frangente della crisi, siano utilizzati per riproporre in forma riveduta e corretta l'assolutismo illuminato, posto questa volta interamente nelle mani di alcuni “decisori tecnici” più o meno transnazionali (banchieri? lobbisti? economisti? associazioni di grandi gruppi industriali?), che ridurrebbero i Parlamenti nazionali, presentati davanti all'opinione pubblica (grazie a opportune campagne mediatiche) come “inaffidabili incompetenti” e “cattivi”, al rango di meri “esecutori di ordini”; ma davanti ad una simile prospettiva possiamo (o dovremmo, prima che sia troppo tardi) solamente dire: abbiamo già dato, grazie! Pensatene un'altra...

E, ripeto, non regge la scusa dell'emergenza, come del resto sottolinea Amartya Sen parlando del debito pubblico:

«Il debito pubblico in Europa deve ridursi, non c'è dubbio su questo. Tuttavia, penso che la tempistica sia sbagliata. Al momento sembra che la priorità ufficiale sia tagliare innanzitutto il debito, e successivamente pensare alla crescita. A me pare che sia questo il grande errore.»

Laddove la politica, anziché costruirsi intorno a interessi generali, cede a interessi o a punti di vista “parziali”, finisce per inventare anche priorità irrazionali e infondate. Se cioè si dà retta acriticamente alle richieste puramente “contabili” degli “esperti finanziari” (ai quali “qualcuno” [ad es. sulle pagine di alcuni giornali “benpensanti”] sogna di affidare lo scettro di despota-illuminato), e attorno a queste - e solamente a queste - si pretende di impostare scelte epocali di politica economica, si trascura il benessere collettivo, che è lo scopo finale, la mission originaria, della politica democratica; e non solo, ma - ascoltando solo il consiglio (o il diktat...) nient'affatto “disinteressato” di tali ambienti - ci si avvia verso rovesci ancora più rovinosi (per i loro costi sociali) di quelli che il “mostruoso” debito minacciava di creare. Senza crescita, infatti, come ricorda A. Sen («La storia economica dimostra che i debiti pubblici sono ripagati molto più facilmente in periodi di alti tassi di crescita. Questo è vero per gli anni successivi alla seconda guerra mondiale così come per gli Stati Uniti durante l'amministrazione Clinton, o la Svezia negli anni Novanta.»), è difficile che possa esserci riduzione del debito.

E lo studioso non trascura di soffermarsi sul ruolo insopprimibile dello Stato democratico (non di uno Stato qualunque), che non consiste solo nel «fornire sostegno alle persone vulnerabili e una rete di sicurezza sociale» ma anche nello svolgere un compito che fa venire il mal di pancia ai liberisti “duri e puri”: «regulating the market economy», per usare le esatte parole di Amartya Sen (il quale per la verità anche in altre occasioni ha sottolineato questo concetto).

Non è questo il momento per «drastically cutting down the state», dice con forza il professore; perché proprio allo Stato spetta oggi il compito di stimolare in maniera intelligente la crescita.

C'è da scommettere che, nonostante l'autorevole fonte di queste considerazioni (un Premio Nobel, autore universalmente riconosciuto di valide e innovative teorie politiche ed economiche), l'establishment continuerà ad andare per la strada che ha scelto graziosamente per noi, motivando le proprie decisioni non con ragionamenti, dimostrazioni e argomentazioni (sottoponibili a controprove, verifiche e “falsificazioni” in senso popperiano), ma con la parolina “emergenza”, con la quale annulla ogni possibilità di discussione e di dubbio (eh già: “c'è l'emergenza, non possiamo fare altrimenti che così!” E, sottinteso: “Tanti saluti alla vostra democrazia!”).

2 commenti:

  1. "E non c'è emergenza che tenga! Il grimaldello (o lo spauracchio) dell'emergenza è stato sempre brandito e utilizzato con rara maestria da chi voleva, per una ragione o per l'altra, liberarsi del “fardello” costituito dal controllo popolare delle decisioni e degli atti politici" concordo in pieno...come sono d'accordo che sanare il debito senza "crescita" dunque investendo sulla ricerca e l'innovazione e, per noi Italiani, sul turismo dell'arte, non ci porterà da nessuna parte...ma temo solo in un baratro ancora più grande...Grazie di far parte dei miei lettori
    mi hai offerto l'opportunità di conoscerti...farò un giro nei tuoi blog :)

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    1. Grazie a te per il commento, e benvenuta :)
      Il tuo blog è fra quelli che ultimamente mi hanno colpito, e ho cominciato con piacere a seguirlo.
      Quanto alla questione dell'emergenza e del debito... Concordo con te sul fatto che in Italia (paradossalmente, visto che abbiamo in teoria una lunga tradizione "culturale") da moltissimi anni si investe e si punta troppo poco sulla ricerca, sulla valorizzazione del patrimonio artistico, ecc.
      Le ragioni di questa "miopia programmatica" sono difficili da decifrare, dato che sembrano mettere in luce una sorta di masochismo politico (ed economico!); o forse il problema principale è che la pressione di alcuni interessi consolidati (ad es., una certa industria che vive di "incentivi" e di commesse dello Stato, che quindi deve rinunciare ad altri usi per quel denaro) è ancora troppo forte e certo non va nella direzione degli interessi generali della collettività.

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