Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 25 aprile 2012

I partiti (in crisi), la partecipazione e il nuovo "spettro": l'antipolitica


Premessa

In questo post parlerò di partiti, al plurale, senza fare soverchie distinzioni fra loro.

Qualcuno potrà farmi notare che ciò è scorretto, perché i partiti sono per loro natura diversi l'uno dall'altro, giacché la competizione (per la conquista del governo in libere elezioni) è la loro stessa ragion d'essere, e nel loro complesso rendono visibili proprio le differenze (sociali, ideologiche, ecc.) esistenti all'interno di una collettività. A mio parere, però, questo è vero e al tempo stesso non lo è. Mi spiego: i partiti politici sono per definizione differenti fra loro – è innegabile – ma tendono a costituire anche un sistema, che presenta, in ogni Paese, caratteristiche sue proprie, che in una certa misura accomunano quindi i partiti stessi.

In questo post non mi occuperò delle differenze tra i partiti, che non nego; ma mi concentrerò invece sulle loro caratteristiche comuni, come partecipanti a un comune spazio politico, che contribuiscono peraltro a regolare (di questo spazio comune fa parte, ad es., il sistema del finanziamento pubblico ai partiti medesimi).



Se neghiamo che esista uno spazio comune del genere, siamo portati anche a negare che esista qualcosa come la crisi dei partiti. A me invece la crisi dei partiti italiani sembra evidente – specialmente a partire dall'atto di abdicazione col quale la maggior parte di essi [o almeno di quelli rappresentati in Parlamento] ha dato vita al governo Monti – e cerco qui di esprimere proprio qualche riflessione in proposito.

§
1. I partiti: soggetti che dovrebbero saper riformare innanzitutto sé stessi

In questi tempi la credibilità della classe politica è crollata come quella di un'impresa che sia sul punto di affrontare una procedura fallimentare. A loro volta, però, i dirigenti di partito reagiscono alla cattiva fama di cui godono presso l'opinione pubblica, e all'incalzare di movimenti di protesta radicale, cercando di “scomunicare” i loro critici e contestatori, con l'uso di due o tre capi di accusa che ritengono infamanti per coloro che ne vengono investiti – principalmente: populismo, antipolitica, qualunquismo (quest'ultimo un po' in ribasso, in realtà).

I tre concetti non sono perfettamente equivalenti fra loro, ma non li analizzeremo qui uno per uno, e quindi li lasciamo sullo sfondo, concentrando l'attenzione sul più significativo dei tre, “antipolitica”, perché è quello che anche nel nome (col prefisso “anti-”) appare come qualcosa che mira alla distruzione, alla dissoluzione di ciò che esiste.

Ma prima di arrivare lì (e di andare oltre, immediatamente dopo), occorre soffermarsi sui soggetti che pretendono o presumono di pronunciare la “scomunica”, i partiti politici.

Fin da quando, a partire specialmente dalle grandi Rivoluzioni settecentesche, si affaccia sulla scena politica la democrazia moderna (o “dei moderni”), appare chiaro che essa è soprattutto confronto fra opzioni e visioni del mondo diverse, in una parola: pluralismo – e per giunta istituzionalmente garantito. La democrazia non può essere effettiva se non garantisce l'esistenza di una pluralità di opinioni politiche, che si rendano visibili a tutti coloro che – potendo votare – hanno il diritto di prender parte.

Paradossalmente, però, nel momento stesso in cui appare evidente che una moderna politica democratica non può prescindere dall'esistenza di partiti distinti, che rendano appunto visibili tanto le differenze in seno alla società quanto le aggregazioni organizzate di cittadini che si riconoscono intorno a un programma di governo e ad una comune visione politica, comincia a nascere la paura che la società, sotto l'effetto delle divisioni politiche, si disgreghi, indebolendo la forza delle istituzioni, il loro effettivo potere.

Almeno per quanto riguarda la Rivoluzione francese, si può dire con una certa approssimazione che lo stesso fenomeno rivoluzionario che crea – almeno in embrione – i primi partiti politici europei, finisce poi per “rimangiarseli”.

I liberali tendenzialmente conservatori, e non particolarmente amici della democrazia, che escono vincitori dalla Rivoluzione, e i loro immediati successori, guardano con sospetto all'idea stessa di “partito politico”, considerato come qualcosa che crea conflitto e quindi disgregazione e disordine: il bene comune, per questi liberali (da Sieyès a Guizot, tanto per indicare alcuni nomi), coincide con l'unità “della Nazione”, che deve identificarsi in una “volontà unica”, lontana dalle “visioni di parte” e ad esse superiore.

Non era in effetti una visione democratica, e del resto alla gran parte della popolazione erano a quel tempo preclusi i diritti politici e – a maggior ragione – l'accesso al potere.

Questo ci fa capire che la polemica contro i partiti, agli albori della democrazia moderna, era innanzitutto una polemica contro la democrazia stessa. Non volere che siano rappresentate le differenze dentro le istituzioni rappresentative significa – oggi come ieri – desiderare una “uniformità di massa”, un “pensiero unico”. L'unanimità – su una scala vasta come quella dei moderni Stati, ma anche soltanto delle grandi città – è sempre un artificio, e laddove si pretende di rappresentare come “condizione naturale” o benefica e salutare ciò che è invece frutto di forzature e coercizioni si ottiene il tipico conformismo ideologico-politico “obbligato” delle teocrazie, delle monarchie assolute e delle autocrazie (alias dittature).

L'esistenza di una pluralità di partiti politici, costituzionalmente garantita, ci allontana da questo rischio, o incubo. I partiti sono quindi coscienti di svolgere un ruolo essenziale nella dialettica democratica e nel funzionamento delle istituzioni; ma d'altra parte talvolta proprio la loro “indispensabilità” può generare patologie, venendo utilizzata dai “diretti interessati” come una sorta di “assicurazione corporativa” che rinnega la necessità – che invece è imprescindibile – di vigilare al proprio interno e sui propri comportamenti, per essere e rimanere all'altezza di quel ruolo.

I partiti insomma non possono invocare la loro “indispensabilità” per chiudersi in una difesa sostanzialmente corporativa delle loro “rendite di posizione”, perché questo fa male alla democrazia, esattamente come l'assenza di partiti. (Non si può quindi pensare che la soluzione del problema sia l'abolizione dei partiti, come pure qualcuno, nella propria “indignazione”, sostiene, giacché questo comporterebbe la fine del pluralismo e perciò della stessa democrazia: si può però certamente pensare a nuove forme di partito, o di aggregazione politica – purché, con la scusa della “corruzione dei partiti” e dell'indignazione generale, non si cerchi di introdurre surrettiziamente il “partito unico”, magari camuffato sotto un nome accattivante e soft.)

Forse è opportuno cominciare a distinguere il pluralismo delle idee e dei programmi dalla forma organizzativo-istituzionale nella quale questo pluralismo si incarna. Il pluralismo è in sé essenziale, irrinunciabile e non negoziabile; la forma invece può essere sottoposta a profondi cambiamenti. I partiti se ne facciano una ragione...

Le aggregazioni politiche di domani potranno essere molto diverse da quelle odierne, e continuare tuttavia a svolgere il loro ruolo.

I partiti in Italia finora, sulla spinta delle richieste pressanti provenienti dagli elettori, hanno saputo interpretare la necessità di rinnovarsi e di cambiare soltanto in termini di restyling e di adattamento del loro “prodotto” secondo strategie di marketing: fuor di metafora, hanno modificato talora il “guscio”, il marchio, senza rinnovare la classe dirigente (ad es., hanno talora cambiato il nome della “ditta” conservando però gli stessi dirigenti e perfino gli stessi leader...). Sostanzialmente, dall'epoca della cosiddetta “Tangentopoli” in poi, non è avvenuto che questo.

Certo, questo è vero in linea di massima, e se si scende nei dettagli qualche cambiamento effettivo c'è stato, qua e là – non sufficiente tuttavia a rilanciare su una base più credibile il ruolo dei partiti.

La maggior parte di coloro che compongono l'odierno ceto politico non sa immaginare un cambiamento diverso da quello “tattico” sinora attuato (riassumibile nel motto: “cambiare nome e simbolo affinché tutto il resto - a partire dalla classe dirigente - rimanga come prima”).

Se cambiare oggi i partiti devono – e devono, eccome se devono! – non è il logo che devono modificare, né l'inno o gli slogan: piuttosto appare necessario che si concentrino su cambiamenti profondi riguardanti il reclutamento del personale politico e il rapporto coi cittadini, due aspetti strettamente legati l'uno all'altro.

I partiti odierni sembrano infatti frapporre tra sé e la “società civile” barriere piuttosto spesse o, nella migliore delle ipotesi, filtri che trattengono all'esterno i meno “docili” e conformisti tra i possibili neofiti “ben intenzionati”, che volentieri spenderebbero le loro capacità ed energie dentro i partiti stessi, e fanno passare invece coloro (giovani e non giovani) che si allineano di buon grado agli “ordini di scuderia”. E questa non è una buona “politica” per nessuna organizzazione.

Se questo è ancora in gran parte il modo col quale i partiti selezionano il loro “personale” (specialmente ai “piani alti”, quelli dove si decide realmente), non ci si può meravigliare troppo se la classe dirigente che sfornano è tendenzialmente priva di grandi slanci, nonché della capacità di elaborare analisi critiche e quindi progetti a lungo termine (sulla società, sull'economia, ecc.), e soprattutto appare terrorizzata e disorientata davanti alla semplice ipotesi di contrastare i luoghi comuni imperanti, prodotti infaticabilmente dai guru del potere economico e finanziario, dai loro giornali, dalle loro fondazioni, ecc.

E se il “grido” (di disperazione o di allarme) proveniente dalla società civile richiede appunto risposte controcorrente che fanno paura a una siffatta classe politica, questa non trova di meglio che adottare la “politica dello struzzo”: caccia la testa sotto la sabbia e fa finta di non aver sentito, continuando imperterrita a sostenere le tesi che, come una diligente classe di scolaretti, ha imparato a memoria per il bene della propria sopravvivenza e perpetuazione.

Se tutto ciò non fosse vero, non ci troveremmo oggi ad assistere in Italia alla “stranezza” di un governo che di fatto esprime funzioni “commissariali” per offrire garanzie alla BCE, al FMI, ai mercati finanziari, ecc. – e in Parlamento avremmo, o avremmo avuto, almeno una alternativa a questa situazione.

Il problema infatti è precisamente questo: gli elementi comuni ai partiti attualmente tendono a prevalere sugli elementi di differenza e di specificità; ci si aspetta che almeno un partito, o un insieme omogeneo di partiti (per affinità ideologica), e in particolare la “sinistra”, si sottragga all'apparente destino costituito dal “mercatismo” gestito in maniera quasi monopolistica dal grande capitale finanziario e dai suoi “umori”. Invece, l'intero sistema di partiti presente in Parlamento dà l'impressione di voler interpretare compatto, con qualche oscillazione di maniera, il ruolo di coppiere al cospetto degli interessi che ruotano intorno al grande capitale finanziario.

I cittadini però non possono accontentarsi di partiti – tanto meno se si richiamano a una tradizione “popolare” e “di sinistra” – che si acconciano a fare le ancelle di interessi che sono sottratti a ogni possibile verifica democratica “dal basso”. Il ruolo dei partiti non può essere quello di scodellare dall'alto ricette non discusse con la base, né è normale che i partiti, in blocco, provino più fastidio e disagio nel confrontarsi con gli elettori che nel subire i diktat provenienti dai santuari del potere finanziario o – peggio – dalle “agenzie di rating” (e quale statuto pubblico hanno queste agenzie? quale responsabilità istituzionale? Perché improvvisamente sono state rese arbitre della politica? in base a quale inatteso teorema? Se ne è mai democraticamente, collettivamente discusso?).

Almeno un partito o un gruppo omogeneo di partiti deve smarcarsi, altrimenti il sistema politico non può lamentarsi delle critiche che gli vengono mosse in modo indistinto e indiscriminato.

2. Esiste un “match virtuoso” fra politica e “società civile”?

Ho citato prima la “società civile”, ma vorrei ora fugare un possibile equivoco. Non penso che i “mali” del sistema dei partiti si possano curare semplicemente attraverso le presunte virtù della “società civile”, intesa come entità generale e vaga – e quindi come pura idealizzazione, buona per condire la “pasta” di una certa retorica piuttosto in voga.

Quando si adopera l'espressione “società civile” bisogna insomma intendersi bene, perché è ambigua e abusata; tra i soggetti che fanno politica attiva (principalmente i partiti politici, ma anche i soggetti istituzionali della democrazia rappresentativa) e la cosiddetta “società civile” c'è in realtà sempre uno stretto collegamento.

Se in Parlamento sembra che siedano rappresentanti “non all'altezza”, non è perché “la politica è sporca” e/o “la società civile è migliore della politica”; che piaccia o no, quei politici sono i rappresentanti di quella società (non è pur sempre quella società ad esprimerli?), ne incarnano interessi e contraddizioni, e ne rispecchiano quindi - in proporzione concentrata e sotto la luce dei riflettori mediatici - non solo i pregi ma anche, se non soprattutto, i difetti.

Dunque, sarebbe a mio parere più corretto interpretare la questione così: se la politica sembra sporca, è semplicemente perché fa il lavoro sporco (ad es. inscena i conflitti più laceranti e/o imbarazzanti, o al contrario i compromessi più vischiosi) per conto di quella variegata parte della collettività che possiede il privilegio della pubblica visibilità, e/o possiede poteri di “contrattazione” di qualsiasi specie e livello e/o accesso alla “tribuna” della pubblica opinione, parte che va complessivamente sotto il nome di società “civile” (gli altri sono i senza voce, gli esclusi, coloro che non della società “civile” sono parte, giacché lasciati molto spesso alla morte “civile” o ad una condizione che parecchio le assomiglia).

Così questa cosiddetta “società civile” si sente la coscienza a posto, mentre c'è qualcuno - la “sporca” politica - che si occupa dell'ingrato compito di spurgarle le fogne.

Vi sono forze, espressioni di interessi presenti nella società, che si adoperano per ottenere il potere politico e, una volta ottenutolo, lo utilizzano in maniera quanto meno spregiudicata se non addirittura arbitraria.
In taluni casi si tratta perfino di forze criminali, tanto è vero che, come è noto, è prevista nel nostro ordinamento la possibilità di sciogliere amministrazioni locali per “infiltrazioni mafiose”.

Ebbene, solitamente (perlomeno negli ordinamenti democratici) gli amministratori pubblici - sindaci e quant'altro - vengono eletti dai cittadini; ci sono stati casi (la memoria collettiva sicuramente lo ricorda, se non è colpita da “strategica amnesia”) di “notabili” politici notoriamente vicini a clan e cosche, che nonostante questa discutibile “notorietà” hanno ottenuto il consenso degli elettori, divenendo sindaci. Tutti inconsapevoli, quegli elettori? Forse qualcuno sì, ma non più di “qualcuno”. Tutti impauriti e ricattati, quegli elettori? Forse qualcuno, forse più di qualcuno... ma tanti altri? Ce n'erano anche di apertamente entusiasti, se si vanno a consultare le cronache dell'epoca.

E allora? Si può in coscienza pensare di mettere in cartellone un match del genere, politica sporca e cattiva vs. società civile buona e virtuosa?
Sono davvero queste le qualifiche dei contendenti?

Non c'è bisogno di soffermarsi sui casi più “dolenti” e imbarazzanti per dover dubitare della validità di distinzioni così “favolistiche” nel loro semplicismo.
E' utile anche guardarsi attorno con occhi attenti per constatare tutti gli intrecci che - anche al di qua della soglia della “illegalità eclatante” di cui sopra - nel quotidiano possiamo individuare fra interessi di determinati gruppi sociali e certe “pronte decisioni” degli amministratori pubblici.

Bisogna forse convincersi una volta per tutte che nelle nostre società “avanzate”, democratiche e interconnesse, non è più affare da nulla individuare dove si trovi il “male”. Un tempo bastava rivoltarsi contro il Tiranno - il visibile e concreto tiranno - per sapere di stare dalla parte della libertà, del bene, del progresso, ecc.
Ma oggi dov'è il tiranno (ammesso e non concesso che così possiamo ancora chiamarlo)? E', direbbe Pirandello, “uno, nessuno, centomila”? ha necessariamente “usurpato” un potere, come il buon vecchio tiranno di una volta? (ed era proprio l'usurpazione di potere l'accusa vincente contro di lui.)

E se ad esempio viene invece eletto e portato in trionfo da un buon numero di cittadini, che tiranno è? Ma poi, è proprio lui “tecnicamente” e “ontologicamente” il tiranno, o non è piuttosto il rappresentante di un intreccio di forze e interessi socio-economici che se ne fanno scudo, calpestando diritti e aspettative di altre forze sociali, di altri soggetti, di altre persone concrete?

3. Lo spauracchio dell'“antipolitica”

Parafrasando Marx ed Engels, si può dire che oggi uno spettro si aggiri per l'Italia: lo spettro dell'antipolitica.

Ma prima di cercare di capire dove si nasconda questo spettro e quali sembianze abbia, mi riallaccio a ciò che ho appena detto: nessuno può illudersi di “uscire dalla storia” e dal proprio tempo, sicché non si deve ragionare come se “politica” e “società” fossero due entità separate e in-comunicanti, o due pianeti distanti e irrelati; e bisogna quindi essere cauti quando – come io stesso ho fatto finora in questo post – si parla di partiti e di politica in generale. Non sempre è condivisibile l'atteggiamento di chi pone sistematicamente sul banco degli imputati “la politica” generica e generalizzata, per sistemarsi a sua volta sul palco della pubblica accusa, nel ruolo di tribuno popolare, o di procuratore/patrocinatore “della società civile”.

Anche se l'attacco ai partiti è oggi piuttosto popolare, e per ciò che ho detto finora può avere anche molte buone ragioni, bisogna sempre domandarsi quali scopi si prefigge una specifica e determinata “requisitoria” antipartitica, a cosa mira e in quale contesto viene fatta. Non è inopportuno poi chiedersi quali sono le credenziali del soggetto che la pronuncia e la sostiene.

Ciò premesso, tuttavia, i partiti politici non possono gettare sprezzantemente l'accusa di retorica dell'antipolitica o - a scelta - di qualunquismo su tutte le voci critiche che provengono dalla collettività e dall'opinione pubblica (insomma: dalla platea dei loro reali o potenziali elettori), perché anche questo modo di dribblare ogni critica con una svalutazione generica delle critiche stesse è comoda retorica.

Se cerchiamo di capire quale significato può avere il termine antipolitica, possiamo forse dare approssimativamente questa risposta: è in parte la denigrazione sistematica dei partiti e delle istituzioni in quanto tali, ma è soprattutto la svalutazione preconcetta della politica, del valore della politica, come attività di analisi e (possibile) risposta alle esigenze della collettività - denigrazione e svalutazione che si accompagnano alla apologia, altrettanto sistematica, della presunta (in effetti indimostrata) purezza e innocenza della società civile in quanto tale, presentata come l'unico soggetto (nella sua indistinta globalità) in grado di porre rimedio alle nefandezze del “Palazzo”.

Nel corpo dell'autentica antipolitica si annida quindi un'illusione manichea grande quanto il Monte Bianco; ed è vero che dietro la retorica di certi “tribuni” si nasconde questo genere di ideologia. Sono in genere persone che, usando una retorica “antipolitica”, si avventano in realtà contro la democrazia, o perché alfieri di un mercato che – messo saldamente nelle mani di esperti, “saggi” e “competenti” nominati da non si sa chi... – faccia a meno delle interferenze della politica (e soprattutto della partecipazione...), oppure perché orfani di un qualche “grande padre-dittatore” che sperano prima o poi di scongelare dall'ibernazione della storia. Ma non hanno di solito molti seguaci, e si limitano a lanciare moniti e invettive da qualche oscuro sito Web o dalle colonne di qualche giornale riservato agli adepti, e comunque standosene a distanza di sicurezza dalle persone comuni a nome delle quali dicono di parlare.

Però non tutto ciò che i partiti oggi definiscono sprezzantemente “antipolitica” si può a buon diritto chiamare con questo nome. A mio parere non si possono definire “antipolitici” movimenti che – pur criticando in maniera intransigente, profonda e “viscerale” l'attuale sistema dei partiti – scendono comunque sul terreno della competizione politica, ne accettano le regole (il confronto democratico) e sono sostenuti da numerosi militanti che fanno della partecipazione e della trasparenza princìpi imprescindibili.

[Vedo antipolitica, in senso proprio, nei movimenti costruiti a tavolino da chi ritiene che la società si possa modificare in laboratorio, come se si trattasse di un esperimento di fisica, e che la politica, con le sue impurità e “deplorevoli” imprecisioni si possa togliere di mezzo, sminuzzandola in tanti specialismi da affidare a “esperti”, i quali dovrebbero risolvere ogni problema con una formula matematica: è la riedizione di certi sogni positivisti o utopico-modernisti ottocenteschi – alla Comte, alla Saint-Simon – che periodicamente vengono riproposti come “la scoperta del secolo” (già, ma di quale secolo?).
Non è invece antipolitica, a mio parere, per es. un movimento come quello che si raccoglie intorno a Grillo, perché si espone, nel bene e nel male, alla partecipazione dei militanti, che con la loro azione e la loro stessa presenza influiscono sul percorso del movimento stesso, sottraendolo a ogni eventuale tentazione di farsi “laboratorio asettico” e avulso dalla società che vuol riformare.]

4. L'antipolitica è forse nei movimenti?

Del tutto fuori strada sono poi i partiti, consapevolmente o non, quando individuano nei movimenti la centrale in cui si annida il temuto spettro dell'antipolitica. Molti di questi movimenti sono invece oggi laboratori politici e democratici di prim'ordine.

Negli attuali movimenti attivi e operanti, come quello per la ripubblicizzazione dell'acqua – che conosco concretamente, avendo tra l'altro collaborato alla raccolta di firme per il referendum dell'anno scorso – si cerca infatti continuamente di applicare princìpi di trasparenza e di democrazia, dando voce a tutti coloro che vogliono partecipare ai dibattiti interni, nel corso dei quali vengono attentamente discusse le richieste e le rivendicazioni da rappresentare alla cittadinanza e alle istituzioni, e si esaminano con altrettanta cura le motivazioni - aperte al pubblico confronto - su cui quelle richieste e rivendicazioni si basano.

Proprio le energie che sembrano ormai scarseggiare nei partiti sono presenti nei movimenti, nei comitati e nei forum: le giovani generazioni - o meglio quella parte di esse che ha maggiore consapevolezza politica e voglia di costruire attivamente un'autentica “democrazia partecipativa” - ma anche le donne, o cittadini/e che hanno avuto esperienze in partiti e che se ne sono allontanati/e perché delusi/e dalle priorità stabilite dai partiti (conservazione degli spazi di potere anziché idee e programmi non solo elettorali) ma che tuttavia conservano la volontà di impegnarsi a beneficio della collettività.

E ritengo che si debba porre molta attenzione a questo aspetto: in questi anni si parla molto dell'assenza delle donne dalla politica, e della fuga dei giovani dall'impegno politico; bene, questa è una verità parziale: è una constatazione vera, cioè, se riferita esclusivamente alla scarsissima presenza di donne e di giovani nei partiti e nelle cariche elettive e istituzionali; ma diventa, per così dire, molto meno vera se si guarda all'impegno delle donne e dei giovani all'interno di forum, comitati e movimenti.

In realtà anche nei partiti si (ri)assiste a volte alla costruzione “dal basso” di nuovi spazi di partecipazione, perché certo il bisogno di “nuova” politica è forte anche in chi con sana convinzione ideale milita nei partiti; ed è per questo che si avverte uno iato più o meno evidente - a seconda dei partiti e delle situazioni locali - tra dirigenti e militanti di partito.

E in effetti, sono possibili in larga misura, per pratica sperimentata sul campo, il dialogo e la collaborazione fra militanti di partito e militanti dei movimenti per raggiungere determinati obiettivi comuni, perché spesso si parla lo stesso linguaggio e ci si confronta pariteticamente, senza gradi di potere e gerarchie. Senza contare che in vari casi si è contemporaneamente, e ottimamente, militanti di partito e di movimento...

Invece è molto più difficile e faticoso, talvolta anche drammatico se non addirittura assente, il dialogo fra militanti di forum e movimenti, da un lato, e dirigenti di partito, dall'altro. Perché, quando questo dialogo c'è, interviene quasi sempre a disturbarlo, prima o poi (come una fastidiosa interferenza nelle telecomunicazioni), quel che io definirei l'istinto egemonico del politico di lungo corso, o dell'abitante delle istituzioni (teso com'è a prolungare all'infinito quel suo abitare), il quale fa di tutto per cercare di cooptarti, o almeno di coinvolgerti nella logica amico/nemico relativa alla sua lotta politica (e nelle cordate politiche che di quella “lotta” sono uno degli strumenti tattici), rispetto alla quale lui vorrebbe che tutto il resto (compresi il tuo punto di vista, e gli ideali che difendi e che sono il solo motivo per il quale hai intavolato un dialogo con lui...) passasse in second'ordine.

E' chiaro che, fra questo istinto egemonico e la costruzione di una matura democrazia “dal basso”, c'è un abisso che va colmato; c'è tutta una cultura politica da costruire o da ri-costruire... E qui probabilmente il ruolo dei militanti, ora e nei prossimi anni, sarà decisivo, per ridare una funzione centrale e attiva (di guida dei processi di trasformazione) alla politica e ai suoi soggetti principali - i partiti - ma anche per cominciare a lavorare seriamente alle fondamenta di una più incisiva partecipazione democratica.

Insomma, se - come si è detto precedentemente - la contrapposizione politica / società civile è ingannevole e produce solo sterili esercizi di retorica politica (anche da parte di rappresentanti “della società civile”), è altrettanto vero che non è corretto identificare i movimenti di rivendicazione (e di "autodeterminazione"), i comitati e i forum con l'anti-politica.

No: l'anti-politica non è lì, o meglio non è necessariamente lì (si valuti caso per caso, semmai, entrando nel merito, argomentando, e non “all'ingrosso”), per due fondamentali ragioni: in primo luogo perché i movimenti in cui più consapevole è l'elaborazione del dibattito interno sono anche veri e propri laboratori (piccoli o grandi che siano) di democrazia e dunque di politica (che si fa anche al di fuori dei partiti, pur se con altri criteri e metodi: è bene che lo si tenga presente), e poi anche perché spesso la più insidiosa anti-politica la fanno, e/o la suscitano inevitabilmente nei cittadini, proprio quei dirigenti politici che si sono resi fautori del neo-feudalesimo italiano, a cominciare da coloro che hanno ridotto i partiti a comitati di sostegno di questo o quel notabile col suo nome inserito nel simbolo da votare, e a comitati elettorali senza progetto (tranne quello che, pomposamente definito “programma”, viene appunto imbastito di volta in volta, e alla carlona, in vista di scadenze elettorali, per poi essere all'occorrenza - secondo un deteriore concetto di “realismo politico” - stracciato e stravolto a seconda delle convenienze del momento e con supremo sprezzo degli elettori “che ci hanno creduto”).

Postilla

Queste riflessioni possono a qualcuno sembrare estranee rispetto al 25 aprile e a ciò che questa data simbolicamente rappresenta in Italia; e invece, secondo me, quando si parla di democrazia e dei problemi che oggi essa deve affrontare e superare, resistendo alle sirene che vorrebbero spingerla ad andare in pensione per sostituirla con un “comitato di saggi” o “di esperti” (magari transnazionale...), si parla ancora e sempre del patrimonio ideale al quale il 25 aprile si richiama.
Anche perché, se il presente si sfalda nella generale rassegnazione, il passato rischia di perdere – nella coscienza di tanti – il suo significato, al di là di celebrazioni e “discorsi ufficiali”.

15 commenti:

  1. Incamero e rifletto. C'è materiale quanto basta per doversi fermare e catalogare, prima di dire parole che altrimenti sarebbero dette a vanvera. Aspettami ...

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    1. Certo che ti aspetto :)
      Può solo farmi piacere un tuo commento ponderato.

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    2. Ecco, mi associo alla signora di sopra, mi ci vorrà una settimana per elaborare tutto quello che hai scritto..:-)) buon 25 Aprile, intanto..:-))

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  2. Il tuo lungo discorso, molto condivisile, tra l'altro simile, nella sostanza, ad un recente articolo/ discorso di Ilvo Diamanti, mi trova, ripeto, d'accordo, vorrei solo puntualizzare la questione Grillo ed il movimento 5 stelle, che reputo diversissimi,
    e mi spiego, e' vero che Grillo,ne e' stato il motore prorompente, con tutti i difetti e le critiche possibili, ma appunto come Movimento, legato molto al territorio in cui i suoi rappresentanti si muovono e delle problematiche di cui si nutrono, che sicuramente quelli della Val d'Aosta rispetto a quello Campano, hanno differenze notevoli, vanno considerati si laboratori, ma sopratutto manifestazione d' assise di persone " comuni" che tentano di porsi non in antagonismo con la politica ma piuttosto di trovare un modo di entrare in un quella politica, con entusiasmi, volti, e idee che sicuramente esprimono una " rivoluzione" rispetto a ciò che abbiamo vissuto dal post- manipulite ad oggi, che detto tra noi e' stato un treno perso...

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    1. Infatti nel mio post dicevo appunto che non tutto ciò che i partiti e i media definiscono "antipolitica" è realmente tale.
      E in particolare accennavo al fatto che non si può definire "antipolitico" il Movimento 5 stelle, perché - a prescindere dal giudizio che si può esprimere sui suoi programmi - è fatto di militanti che credono nella democrazia e nella partecipazione. E questo, a mio parere, ne fa un movimento politico a pieno titolo, senza "anti-".

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  3. Il tuo post è molto ben argomentato e non richiede in sé un commento, perché affronta in maniera totalmente “oggettiva” (direi scientifica) la questione. Per cui non posso che essere in accordo totale. Richiede però molte riflessioni. Le richiede nel senso che una volta esposte le problematiche connesse con il rapporto distorto che si è venuto a creare tra partitismo e rappresentazione democratica, occorre seriamente pensare a come trovare soluzioni.
    Ne riporto solo alcune.
    Concordo sul fatto che l’idea di “partito” sia connaturata con l’idea stessa di democrazia; penso però che il significato di questo sostantivo sia stato nel tempo svuotato. Come dicevi, si tratta di conciliare contenuto e forma, tenendo però presente che spesso la forma modifica il contenuto. Perché se è vero che abbiamo assistito ad un sistematico processo di restyling che mirava a conservare la struttura interna (soprattutto dal punto di vista del permanere delle stesse persone ai vertici), è anche vero che il marketing spinto nei confronti di nuove fasce di consenso ha spesso snaturato lo spirito iniziale, fondativo del partito stesso.
    Quando ad esempio la sinistra ha rinunciato ad alcune “spigolosità” ideologiche per compiacere il centro ed allargare la base, non ha fatto solo restyling, ma ha cambiato proprio approccio filosofico al concetto di rappresentanza.
    D’altra parte è chiaro che si è cercato di semplificare il rapporto fra politica e società civile, ma questa semplificazione “dialettica” ha in realtà svuotato di contenuti il concetto di “partito” così come lo intendevano le generazioni precedenti. Per rappresentare tutti, si finisce per non rappresentare più nessuno.
    Si tratta di un processo di dissoluzione dei partiti, in definitiva; che ha come prevedibile conclusione la creazione del partito unico a cui anche tu hai fatto cenno. Chiaro che i dirigenti di partito si arrocchino nelle loro posizioni “formali”; in fondo, svenduto il contenuto, non rimane altro da fare che cementare “la forma”, per poter continuare a parlare di “partito”. In questo senso, l’antipolitica è forse da ricercare proprio nel modo attuale di fare politica in nome e all’interno di un partitismo inteso in tal modo. Quando penso all’antipolitica a me vengono più in mente persone come D’Alema piuttosto che quelle che quelle che lui stesso addita come “antipolitici”. La conseguenza evidente è la perdita della capacità di seguire le esigenze, le domande della società civile. Condivido quanto osservi sulla fondamentale equivalenza tra le due cose, ma mentre la società civile è un qualcosa di mobile, in perenne fermento, la rigidità d’impostazione dei partiti rende il travaso tra le i due enti molto problematico.
    Per questo i Movimenti cercano di supplire alle mancanze della legittima rappresentanza politica democratica (i partiti, appunto).
    Non può quindi che essere problematico il rapporto tra i due, e soprattutto tra Movimenti e dirigenti di partito, che si vedono espropriati del loro ruolo funzionale. Non mi stupisce quindi che le reazioni siano quelle che si leggono sui giornali.
    L’indispensabilità dei partiti li porta a preferire una prova di forza. In questo momento storico valuterei attentamente l’opportunità di un simile approccio. Secondo me lo scollamento è tale da non permettere ai nostri rappresentanti di percepire il reale disagio nella società civile, la quale si sta muovendo molto più in fretta di quanto si intuisca dentro i “palazzi”. (continuo)

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  4. Il pluralismo è indispensabile alla democrazia, ma quegli elementi comuni ai vari partiti che ha individuato, prevalgono abbondantemente sulle differenze ideologiche, e portano all’esservimento del sistema politico nel suo complesso a logiche che non hanno nulla di democratico. E’ questo che è divenuto intollerabile. E se è vero che esiste un pericolo di deriva antidemocratica, è anche vero che bisognerebbe saper sfruttare l’incanalamento positivo di energie che si sta realizzando nel paese grazie al lavoro dei Movimenti,
    Ritengo che un politico lungimirante dovrebbe comprendere che tutto si sta giocando sul filo di questa dicotomia. Oserei dire che la sostanza si stia ribellando alla forma. E la forma dovrebbe avere la prontezza di riappropriarsi di valori che si sono annacquati nel tempo. La forma dovrebbe tornare ad assumere “valore” I partiti dovrebbero nutrirsi dei movimenti. Questo sarebbe garanzia di mantenimento del meccanismo democratico fondamentale. Il problema è forse che oramai la paura del pluralismo prevale sulla lungimiranza politica. E si pensa che tenere rigida la struttura sia la soluzione. Ma la rigidità rende fragili. Per questo i sistemi politici arrivano al loro termine tutti di colpo, finiscono da un giorno all’altro.
    I movimenti si smarcano, tentano di ristabilire il pluralismo. Ritengo che i movimenti siano la fase embrionale di un partito, e non può essere altrimenti. Col tempo non possono fare altro che sostituirsi ai partiti , per perpetuarne la funzione, che è quella di garantire il pluralismo rappresentativo.
    E questo è proprio il contrario della pretesa antipoliticità di cui vengono accusati.
    Se i partiti fossero meno rigidi, se sapessero rinnovarsi nella sostanza, e non solo nella forma come hanno fatto, potrebbero tranquillamente rappresentare anche quella fascia immensa di popolazione che attualmente non si sente più rappresentata.
    Tanto di cappello, quindi, a coloro che stanno liberando energie esponendosi, tentando esperimenti politici che a noi possono sembrare quasi rivoluzionari, ma che invece sono nell’atto fondativo di qualunque partito.
    Occorre opporsi all’istinto egemonico del politico, e questa non può essere una cosa indolore. C’è da ricostruire la cultura politica di questo paese, e non vedo chi altri possa tentare di farlo, se non i militanti dei movimenti.
    Altro che antipolitica!!

    Buona giornata :-)

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    1. Grazie di questo commento (in 2 parti) che arricchisce le mie riflessioni: il bello dei blog - lo dico sempre - sta in questa opportunità che offrono di fare ragionamenti a più voci... e di "contagiarsi" a vicenda grazie a commenti che a loro volta producono altre idee :-)
      In effetti, nel mio post mi limitavo a inquadrare il problema; non mi sono spinto a proporre soluzioni "operative", tranne qualche accenno nell'ultima parte (i movimenti come "stimolo" di rinnovamento ed esempio di militanza appassionata, consapevole e costruttiva).
      [continuo]

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    2. E' vero, come tu dici, la forma influisce sul contenuto, e il marketing spinto nei confronti di nuove fasce di consenso ha spesso snaturato lo spirito iniziale, fondativo del partito stesso.
      La trasformazione dei partiti tradizionali in partiti pigliatutto o meglio pigliatutti (dizione che il politologo G. Pasquino giustamente preferisce come traduzione di Catch-All Party, definizione coniata da Kirchheimer) non è stata indolore e ha svantaggiato soprattutto i partiti di sinistra, snaturandoli - come giustamente sottolinei. E in proposito opportunamente fai notare questo aspetto sul quale non mi ero soffermato:
      Quando ad esempio la sinistra ha rinunciato ad alcune “spigolosità” ideologiche per compiacere il centro ed allargare la base, non ha fatto solo restyling, ma ha cambiato proprio approccio filosofico al concetto di rappresentanza.
      E mi sembra sensata anche l'osservazione sulla costitutiva "mobilità" della società civile. I partiti dovrebbero fare tesoro di quella mobilità e fluidità, per rappresentarla al meglio dentro le istituzioni; dovrebbero insomma essere capaci di porsi "in ascolto" della realtà sociale, e non ritenersi per definizione "migliori" della società stessa [vizio di certa sinistra "arroccata" (il tuo riferimento a D'Alema mi pare appropriato, ma non è il solo), ma anche di certi "tecnici" liberisti, che - quando pretendono con atteggiamento professorale di dirci, senza neppure ascoltarci: "Vi spiego io come va il mondo e/o qual è il vostro ruolo" - in fondo adottano uno schema manicheo del tutto speculare rispetto a quello che esalta la "società civile" a priori, come per definizione "migliore"].
      [continuo]

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    3. Sono in sostanza d'accordo su tutte le tue osservazioni, ne metto in evidenza ancora due in particolare: Il problema è forse che oramai la paura del pluralismo prevale sulla lungimiranza politica. E si pensa che tenere rigida la struttura sia la soluzione. Ma la rigidità rende fragili. Per questo i sistemi politici arrivano al loro termine tutti di colpo, finiscono da un giorno all’altro (le vicende del 1992 avrebbero dovuto insegnare qualcosa in proposito al sistema politico, e invece questo ha preferito evitare le riforme di sostanza con alibi vari e assortiti, e rinviare, rinviare all'infinito il momento della verità...).
      E ancora: Occorre opporsi all’istinto egemonico del politico, e questa non può essere una cosa indolore. C’è da ricostruire la cultura politica di questo paese, e non vedo chi altri possa tentare di farlo, se non i militanti dei movimenti.
      La creatività politica - piaccia o no ai partiti - sta oggi nei movimenti (pur con tutte le loro difficoltà interne e le "crisi di crescita"); e senza creatività non si rinnova nulla, non si offrono prospettive, motivazioni nuove (anche per uscire dalla crisi!), ma ci si limita a riproporre all'infinito, in maniera scolastica e meccanica - e perciò sterile, inservibile - e senza alcun appeal, formule retoriche (come appunto l'accusa di "antipolitica") e ricette ampiamente esauste e screditate (come il "prontuario" liberista del "perfetto salvatore dell'economia", caro al Fondo Monetario & C., che con due mosse - licenziamenti, privatizzazioni - ti porta - così dicono loro - direttamente nel paradiso della crescita; sì, però di pochi... E tutti gli altri? in quale paradiso vanno a finire? Ad altri post, eventualmente, e non ai "post-eri"... l'ardua sentenza :-)

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  5. Su una cosa Napolitano ha ragione: i partiti, servono.
    Quello che non serve, anzi è proprio dannosa, è tutta l’accozzaglia partitica presente nella politica italiana, o, per meglio dire a qualcosa serve, a sperperare more solito i soldi di tutti, a creare nepotismi e clientelismi, cricche e sottocricche, tutto quel mare magnum di porcherie nel quale questo paese annega ogni giorno di più; tutte cose che invece è indispensabile eliminare dal panorama italiano non solo politico, visto che poi il danno come abbiamo potuto imparare ma più che altro subìre si spalma anche in altri settori del paese quali imprese, industrie eccetera, dunque inevitabilmente anche sulla vita di tutti noi.

    Qui chiunque si sveglia al mattino con l’idea di fondare un partito con lo stesso spirito col quale decide la località delle sue vacanze o l’acquisto dell’automobile nuova lo può fare, e questo con la democrazia non c’entra niente, anzi è proprio l’antitesi dell’idea essenziale della democrazia.

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    1. Penso che prima di ragionare "nel concreto" si debba fare un'analisi quanto più astratta possibile, come ha fatto Ivan; solo allora è possibile comprendere come sia stato possibile degenerare nel modo che è sotto gli occhi di tutti.

      Il proliferare di partitini è conseguenza della crisi del concetto stesso di "partito". Come dire che ci riconduciamo al caso precedente.
      Napolitano è l'espressione compiuta di tale crisi.

      Occorre aria fresca ...

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    2. Senza farlo apposta (di certo non ci eravamo consultati :-), in questo post ho trattato lo stesso tema del discorso di Napolitano, ma (ferma restando la necessità dei partiti in democrazia) da un punto di vista mooolto diverso, come si può vedere :-)
      (Sembra che ho fatto il controcanto al suo discorso, e invece la cosa è stata del tutto casuale: si vede che il tema aleggiava nell'aria...).
      Il proliferare dei "partitini" ci porta più che altro al tema della personalizzazione della politica, e alla sua tendenziale "feudalizzazione"; concordo con Xtc, è un'altra conseguenza della crisi del concetto di partito: una volta che si è perso di vista il "progetto politico" complessivo, che un tempo i partiti elaboravano in sintonia con la loro base sociale, non resta ahimè che la pura conquista degli spazi di potere. Scomparso il "progetto ideale" nel quale riconoscersi e identificarsi, restano soltanto le "persone", i leader più o meno carismatici.
      Ma i leader si scelgono in base alle "impressioni", più che ai ragionamenti; e tutto si riduce a un "impressionistico" e opinabile: "Mi piace quello lì, perché ha un bel sorriso", oppure perché sa dire barzellette, oppure perché è ricco, oppure perché "è intellettuale" o "le canta chiaro"; ecc. ecc.
      Poi, quando (inevitabilmente) si scopre che le "impressioni" son cosa ben diversa dalle vere capacità e attitudini dei soggetti, si entra in crisi...
      [E aggiungiamo pure che il leader è solo la faccia di una politica; dietro ogni leader c'è un blocco sociale e/o di potere che lo sostiene: ed è quel "blocco" - complesso, composito, a volte anche vasto - a decidere realmente, a fare e disfare fortune e maggioranze. Ci facciamo incantare dalla faccia, che è l'apparenza "scenica" e retorica, senza capire a fondo la "sostanza", la vera posta in gioco.]

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    3. Sai una cosa, Ivan? Penso che quasi tutti pensino di poter "sapere" a priori; che credano di non aver bisogno di educazione e cultura per valutare. Come se la verità esistesse e fosse alla portata di tutti. Ognuno ritiene di possedere la visione corretta, e non si preoccupa di corazzarsi di conoscenza. Quasi tutti parlano per sentito dire, emettono sentenze, s'indignano, inalberano il proprio IO. Pretendono di giungere al termine di ogni pensiero per il solo fatto di averlo voluto. Apprezzo piuttosto moltissimo il tuo approccio in apparenza cerebrale, in realtà estremamente "realista". E, vorrei aggiungere, umile.
      Decisamente cosa d'altri tempi. Felice d'averti incontrato.

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    4. Ognuno ritiene di possedere la visione corretta, e non si preoccupa di corazzarsi di conoscenza. Quasi tutti parlano per sentito dire, emettono sentenze, s'indignano, inalberano il proprio IO. Pretendono di giungere al termine di ogni pensiero per il solo fatto di averlo voluto.
      Condivido; è un'epoca in cui rischiamo di diventare tutti "orecchianti", e di esprimere certezze senza aver cercato, prima, di capire: ma d'altra parte forse cerca di capire chi scopre che non gli/le basta il "sentito dire" e la "versione di comodo" - quella che giustifica solo le proprie personali inclinazioni.
      Il tuo commento mi fa piacere perché mi conferma che l'intuizione dalla quale sono partito, cominciando a inanellare riflessioni (più o meno "ispirate") in questo blog, ha un senso: sentivo e sento, tante volte, la mancanza di un ragionamento un po' più "rigoroso" sulla realtà, che pur non rinunciando agli ideali, non si accontenti delle scorciatoie tattiche, dialettiche e retoriche, quelle che dànno sul momento l'impressione di poter "vincere facile" (come dice una nota pubblicità...), nel dibattito salottiero e nella propaganda spicciola, ma che poi, alla lunga, rivelano di avere il fiato corto, lasciando troppi interrogativi in sospeso. Per me è preferibile ammettere una qualche crepa momentanea nelle (più o meno) granitiche certezze che non negare l'evidenza, per non ammettere l'esistenza imbarazzante della crepa stessa.
      Quando un conto non torna, non basta un gioco di prestigio a togliere dall'imbarazzo, perché quel conto "truccato", poi, mette in pericolo la credibilità di tutto l'edificio ideale.
      Meglio lavorare pazientemente, piuttosto, per capire come rettificare l'errore di calcolo, e non transigere, non "smuoversi" da quell'impegno, anche se è meno eclatante di una "verità" pret-à-porter da lanciare tempestivamente nella mischia.
      E allora, certo, nei miei post e nei miei interventi si troveranno pochi "punti esclamativi", ma è una precisa scelta. E sono contento di sapere che qualcuno la condivide e la comprende.

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